SPECIALE “AMELIE” – L’apparente libertà di un set/trappola

In “Il favoloso mondo di Amélie” c’è solo un calore artificiale, in un universo che vorrebbe accoglierti ma è sempre inospitale. Un mondo nel quale si resta momentaneamente intrappolati, ma dal quale si ha solo il desiderio di fuggire. Per sempre

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Ci sono tracce di nero dentro il coloratissimo mondo di “Amélie”. Tracce di un’oscurità che non rivelano un nuovo mondo, ma lo nascondono limitandolo. Del resto i personaggi di Jeunet hanno una consistenza quasi a metà tra un cartoon e un corpo reale. Si nascondono nei cromatismi falsi della fotografia di Delbonnel per non rivelarsi, per perdere la loro esile consistenza primordiale (il cartoon) ma rifiutano al tempo stesso la possibilità di diventare “veri”. Il mondo di “Amélie” resta così, sospeso tra la fiaba e una dimensione futuristica indefinita (anche se le coordinate temporali, con precise date di eventi, vengono continuamente sottolineate), in quella “terra di mezzo” dove viene negata una vita propria ai personaggi proprio perché troppo racchiusi nel loro universo drasticamente impermeabile. Non sembrano esserci più vie d’accesso dentro il film di Jeunet ma una sola, con la ragazza prepotente manipolatrice di destini capace di fagocitare la seduzione (l’incontro nel bistrot tra la tabaccaia e il bisbetico cliente) e motore di sguardi che seguono sempre le stesse limitanti traiettorie (la casa del padre, il bistrot, il condominio dove abita la ragazza, il fruttivendolo). Jeunet finge una dimensione “passéiste” facendo propria la gioia di Renoir, il “bonheur” di Duvivier, l’attraente lirismo di “La moglie del fornaio” di Pagnol e quella dimensione “fuori tempo” di “Giorno di festa” di Tati. In realtà quel colore falso che si attacca al corpo dei personaggi non li arricchisce di un ossigeno che non hanno mai posseduto, non gli consente quelle vie di fuga ottenute soltanto virtualmente con gli spostamenti reali della statuina di un nano. E’ un film appesantito di décor, di oggetti, scatole, ricordi che non diventano mai memoria partecipata, utili soltanto ad appesantire il campo visivo dove le inquadrature vengono ridotte alla stregua di semplici quadretti, dove portare bozzetti, espressioni più che volti, sempre senza vita. Ma ancora: Jeunet abusa della migliore tradizione del cinema francese scippandola in modo indegno, ricorrendo alla voce-off e a insistiti sguardi in macchina riproducendo quella libertà della Nouvelle Vague della quale “Il favoloso mondo di Amélie” non conserva neanche la minima traccia. Dentro c’è tutto un gioco artificiale, calcolato, una chirurgia del sentimento che riproduce scientificamente slanci alla Demy privati della canzone, e quello sperimentalismo dello smarrimento di “Zazie dans le metro” di Malle. Ma in realtà quello di Jeunet è un falso mondo di balocchi, meccanico come “Delicatessen”, inquietante come “Toys” di Levinson, che non ha neanche il coraggio di dichiararsi apertamente falso come invece ha fatto Lurhmann nella sua Montmatre di fine secolo in “Moulin Rouge”. In “Il favoloso mondo di Amélie” c’è solo un calore artificiale, in un universo che vorrebbe accoglierti ma è sempre inospitale. Un mondo nel quale si resta momentaneamente intrappolati, ma dal quale si ha solo il desiderio di fuggire. Per sempre.

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