SPECIALE GEN Z – Ai tempi dell’individualismo di massa
Nella sua indeterminatezza va forse rintracciata l’attitudine di una generazione che rifiuta di riconoscersi in un’etichetta univoca. Secondo articolo sul nostro focus dedicato agli under-30
Ogni volta che si parla di “Generazione Z” o che si tenta di articolare dei discorsi socio-culturali in merito, percepisco sempre un senso di discrasia. Che non è da addurre tanto a chi queste riflessioni le intavola o all’annosa questione per cui è legittimo o meno discutere sulle esperienze giovanili anche se non si appartiene a quella cornice anagrafica. Per nulla. La sensazione di sfasamento deriva proprio dalla mia (forse personale?) incapacità di autodefinirmi in relazione ai bisogni e agli interessi dei miei coetanei. E quindi, all’impossibilità di estendere le riflessioni che riguardano solamente il mio modo di essere e di esistere alla collettività: a chi, cioè, dovrebbe riflettere schemi di pensiero e vissuti simili solo perché, da un punto di vista puramente generazionale, li ha maturati nello stesso periodo storico in cui mi sono formato.
Allora appare necessario presentare qui una prospettiva perlopiù personale, che per quanto non sia universalmente condivisibile né tanto meno attinente alle sensazioni altrui, può in qualche modo offrire una risposta (parziale) agli interrogativi di coloro che cercano di sintetizzare in una sola immagine l’elemento contraddistintivo della Generazione Z. Perché ciò che davvero crea comunità tra tutti noi, l’istanza che probabilmente separa i “giovani d’oggi” da quelli di “ieri”, è l’accelerazione progressiva dei fenomeni individualistici all’interno della nostra società. Se in partenza ho parlato della mia personale refrattarietà – se non addirittura, insofferenza – a definire un senso di appartenenza generazionale partendo da una ipotetica comunione di visioni o intenti con l’altro, tale logica è da ricondurre proprio a questa forbice individualista che si è aperta nei modi odierni di pensare sé stessi. Certo, ognuno di noi condivide passioni e interessi con i propri amici, soprattutto in merito alle attitudini consumistiche su cui costruiamo la nostra quotidianità. Ma quello che, a mio avviso, ci restituisce una certa prossimità reciproca è, paradossalmente, la possibilità, tutta odierna, che il singolo individuo ha di ritagliarsi uno spazio personale – e quindi unico – all’interno dell’emisfero social(e). Una possibilità naturalmente enfatizzata da quella casualità storica che ci ha permesso di formare la nostra identità in parallelo alle trasformazioni linguistiche che hanno simultaneamente attraversato la storia (altrettanto giovane) della comunicazione digitale.
Dopo queste fugaci elucubrazioni, posso quindi delineare con certezza cosa sia la Generazione Z? Naturalmente no. Ma se non è in grado di farlo chi vive internamente queste traiettorie generazionali, chi può stabilirlo? Probabilmente nessuno. E il motivo lo possiamo individuare, non a caso, nel simbolo che è stato (giustamente) assegnato alla nostra generazione. Come è noto, nelle formule matematiche la Z equivale ad un intero. Ed è forse nella sua indeterminatezza, nella essenzialità con cui può significare un insieme di elementi e nel contempo uno solo di questi, che va rintracciata l’attitudine di una generazione che rifiuta di riconoscersi in un’etichetta univoca. E che per questo diffida di chi dibatte sui comportamenti giovanili senza inserire nell’equazione il fattore fondamentale: cioè quello individuale. L’unico elemento che paradossalmente dona coerenza ad una generazione impermeabile al pensiero collettivista.