SPECIALE GEN Z – L’ultima generazione del cinema

Inizia il nostro focus sulla Generazione degli under 30. Uno speciale parallelo alla cover story del n.16, interamente curato dalla “nostra” Redazione Z

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Partirei da quei piccioni che svolazzano qua e là per l’appartamento di Lea Seydoux nel meraviglioso La bête di Bertrand Bonello, visto e apprezzato nell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. L’animale, nell’opera di Bonello, incarna la prefigurazione di un omicidio, o meglio, di un femminicidio che incombe sul finale del film. Ma questo presagio di morte, a conti fatti, non si limita alla sola dimensione immanente della storia raccontata in La bête. È un sentimento di angoscia che avvolge lo spettatore dal primo all’ultimo minuto del film di Bonello. Una percezione respingente forse proprio perché riflette con precisione assoluta la coscienza acquisita di una irrimediabile situazione a cui il mondo in cui viviamo sta andando incontro a passi sempre più lunghi. “Morte, distruttore di mondi”, direbbe J. Robert Oppenheimer.

Per questo, credo che La bête non sia solo un ottimo film concettuale sulla nuova vita delle immagini ma anche un’opera in grado di raccontare con disarmante cognizione di causa un disagio che ritrovo nel modo di essere e nei comportamenti della generazione a cui appartengo, quella che tutti chiamano l’ultima generazione. Stiamo parlando di un’opera che, prima di ogni cosa, è un melodramma. Una potenziale storia d’amore tra un ragazzo e una ragazza che si dipana nel corso di tre diverse finestre spazio-temporali (1910-2014-2044) ma che si dimostra incapace di esistere in ciascuna di esse. Proprio in questo senso, il film di Bonello è la metafora perfetta per descrivere la mia generazione, vittima della propria inquietudine esistenziale nel voler diventare qualcosa senza sapere che cosa, nell’avere a disposizione tutto senza che nulla gli appartenga davvero. Questa inconsistenza di cui veniamo tacciati dalle generazioni precedenti, non è altro che l’incapacità condivisa di identificarsi in qualcosa, di essere “atto” a fronte di una società che ha nei nostri confronti un’aspettativa che non è mutata con il mutare della società. La mia domanda è: come potremmo mai essere qualcosa di definito all’interno di un ecosistema mediale dove la conoscenza procede per frammenti, stories, reels, dirette streaming che si sovrappongono in un’infinita costellazione di immagini emesse in contemporanea? Non esistono più delle coordinate di riferimento fisse, quelle a cui tutti, prima di noi, hanno guardato. Le uniche certezze con cui stiamo imparando a convivere sono che probabilmente saremo noi ad andare incontro al collasso climatico, sociale e politico del mondo in cui viviamo.

Questa sensazione di disorientamento è acuita dal fatto che l’Italia non sia un paese per giovani e il dibattito sociale non prende minimante in considerazione la questione della generazione under 26. Anche perché questa rappresenta, oggi, una minoranza demografica senza voce, ritenuta inconsistente e inutile, soprattutto ai fini elettorali. Allo stesso tempo, siamo anche oggetto dell’analisi di certi talk televisivi che portano in tv esperti e intellettuali di ogni genere che spiegano come il problema siano i giovani “che non vogliono lavorare” o altre cazzate imbevute di retorica.

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Davanti a questa condizione, la reazione della mia generazione non può essere quella rabbiosa e militante di chi ci ha preceduto. Loro avevano in mente un’idea, una speranza di futuro. Noi, nonostante siamo rincorsi dalla parola futuro, siamo incapaci di visualizzarlo, di immaginarlo tra le nostre mani. E come nel film di Bertrand Bonello, non ci resta che l’inquietudine esistenziale, nell’attesa del nostro “big one”.

 

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