SPECIALE GHOSTBUSTERS – 1984

Ghostbusters
Non eravamo (né mai avremmo potuto essere) cinefili, ma precoci teorici dell’immagine sì. Eravamo già in grado di misurare lo scarto nel cinema e abbracciare senza morale il delirio cyber. Piccoli teorici che andavano alle elementari e cominciavano a disintegrare una videocassetta dietro l’altra. Senza cultura ovviamente. Solo istinto. E per istinto Ghostbusters divenne il nostro capolavoro

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My Generation.

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Andai a vedere Ghostbusters con mio padre, zio, cugina e qualcun altro. La città era Roma, ma il cinema si chiamava New York. Era una sala gigantesca che portava il nome della location del film. Una sala che oggi non c’è più. Un sabato d’inverno del 1984. Non è un mistero che quel pomeriggio il sottoscritto avesse sette anni e una gran voglia di vedere quei tre uomini del manifesto che indossavano una tuta operaia e un’attrezzatura che sembrava fatta dagli scarti di un distributore di benzina. I fantasmi del titolo la mia immaginazione fanciulla proprio non vedeva l’ora di raffigurarseli dentro un film.
C’è un privilegio che la mia generazione ha avuto – più o meno parlo di chi è nato tra il ’75 e l’ ’80. È stato quello di assistere per prima alla visione sperimentale di spettacoli stupefacenti su grande schermo, dove gli effetti speciali potevano rappresentare (ir)realisticamente qualsiasi cosa. Fummo i testimoni silenziosi di un brusco passaggio tra l’artigianato e il barocco ipertecnologico, in cui potevamo già misurare la portata rivoluzionaria della nuova epoca. In un certo senso per quanto riguarda il sogno fantastico siamo cresciuti biologicamente e percettivamente su tre diversi modelli visivi che hanno condizionato i nostri primi anni di esperienza audiovisiva: il cartoon (Disney e/o nipponico), i film horror e mitologici che davano in televisione e che i nostri padri e i nostri nonni ci confidavano di aver visto al cinema vent’anni prima, lo scintillante blockbuster americano postmoderno made in Lucas/Spielberg/Landis. Questa triplice influenza rese me e i miei amici dei piccoli spettatori concettuali. Non eravamo (né mai avremmo potuto essere) cinefili, ma precoci teorici dell’immagine sì. Eravamo già in grado di misurare lo scarto nel cinema e abbracciare senza morale il delirio cyber. Piccoli teorici che andavano alle elementari e cominciavano a disintegrare una videocassetta dietro l’altra. Senza cultura ovviamente. Solo istinto. E per istinto Ghostbusters divenne il nostro capolavoro.

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Reitman vs. Petersen?

A essere onesti nell’ ’85 quello di Reitman dovette vedersela con un altro grande film fantastico che i nostri genitori ci portarono a vedere e che fu un grosso successo commerciale: La storia infinita di Wolfgang Petersen. Per tutto l’anno si creò una specie di dualismo tra gli amanti del primo e quelli del secondo. Ora io in linea teorica sono anche un fan de La storia infinita. Lo sono nella misura in cui non rivedo il film di Petersen da 25 anni e quindi non ho chiarissimo in mente di cosa stiamo parlando. Non erano schieramenti tra Guelfi e Ghibellini, anche perché sostanzialmente i due film, diversissimi tra loro, non potevano non piacere a un bambino. Si trattava però di scegliere tra il romanticismo europeo di Petersen e la fantacommedia punk di Reitman. Non facile. La discriminante era pedagogica. Se amavi La storia infinita eri un ragazzino a posto, pronto alla lettura dei libri giusti e a essere promosso dalla maestra di italiano come il primo della classe a tempo di record. Se amavi Ghostbusters… eri un tipo sospetto. Un incrocio tra un precoce iconoclasta e una precoce testa di cazzo. I nostri genitori a seconda del loro gusto e forse anche del tono che volevano darsi con i loro coetanei spingevano per l’uno o per l’altro film e noi ascoltavamo dietro le quinte, provando a decifrare le sensazioni del piacere. Anche in quel caso eravamo le piccole cavie di un discorso più grande di noi e che molti anni dopo ci avrebbe coinvolto in prima persona nelle cose che avremmo scritto: cinema europeo o cinema americano, la pagina scritta o l’immagine, il divertimento impegnato o il divertimento e basta.

I fantasmi.

Ora a distanza di 30 anni la cosa di cui mi pento maggiormente è, nelle rarissime volte in cui è accaduto, di essermi Ghostbustersdimenticato di Ghostbusters. Negli anni del liceo è successo. Inseguivo gli incubi di Cronenbergh, Lynch e Tim Burton, facendo un po’ lo snob nei confronti di Reitman e Ramis. Sono stato un figlio ingrato. Come tutto sommato lo è stata Hollywood. (Lo è sempre stata nei confronti dei grandi successi commerciali degli anni ’80, ai quali ha donato gli allori dei classici in versione deluxe per l’home video, ma poi relegato i suoi protagonisti nella terra indefinita del prodotto medio condito dai sensi di colpa e dalla nostalgia di un mondo perduto. Così a conti fatti l’unico a uscire da questo oblio è stato Bill Murray, pagando però un prezzo carissimo nella impassibilità espressiva indie di Sofia Coppola, Wes Anderson, Jarmush). Se, come dice il recente e bellissimo Sils Maria di Olivier Assayas, un testo cambia nel tempo ed è come un oggetto che varia a seconda del punto in cui lo guardi, questo revival di Ghostbusters a trent’anni di distanza potrebbe forse assumere una nuova prospettiva critica. Ma ha senso porsi questo problema quando si festeggia un compagno di vita? La risposta in casi come questo è sempre la stessa: mai incrociare i flussi. E’ una risposta facile, lo so. Ma l’unica possibile. E onesta.

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