Speciale I PECCATORI: in bilico tra mito e realtà
Il film di Coogler sembra una riflessione chiarissima sullo scarto continuo e implacabile che si crea tra veridicità storica e risonanza del mito. Da che parte stare?

Il punto è questo: la realtà oggettiva è scomparsa. Parlare di realtà sembra non avere più il minimo senso, e il rapporto col pretesto della veridicità storica è funzionale (sembra) solo per scrivere/dirigere/pensare un prodotto audiovisivo o letterario – vedi Il realismo è l’impossibile (nottetempo; 2023) di Walter Siti, in particolare la postilla che aggiorna le riflessioni al 2023. La veridicità storica è stata il cardine che da sempre ha consentito al lettore l’appiglio al reale; ma cosa fare quando la deflagrazione di questo concetto è talmente palese? Nella narratologia che oggi chiamiamo “classica”, sin dalla fondazione del novel, in quanto racconto le cui trame si fondano sulla realtà storica, si ha avuto la certezza nel fatto che ogni deviazione presa dall’autore fosse in qualche modo giustificata o giustificabile perché volutamente e dichiaratamente un eccesso. Ryan Coogler in tutto ciò sembra quindi aderire all’idea afrofuturista tutta contemporanea della storia che verte in direzione di una mescolanza magica. Perché l’afrofuturismo si fonda proprio su questa idea secondo cui il racconto drammaturgico deve passare per una sorta di riappropriazione e riscrittura, anche laddove si tratti di convergere eventi storici saldamente comprovati dalla comunità (anche accademica) espressamente “bianca”. Nel 1990 Thomas Stanley intervista il musicista jazz, filosofo e poeta Sun Ra, per la radio WPFW-FM di Washington D.C., chiedendo “se ci fosse un futuro per le persone di questo pianeta”. Sun Ra risponde: “sai, in chiesa usano l’altare, a-l-t-a-r. Devi usare a-l-t-e-r, alterazione; questo significa cambiamento. In altre parole, sostituisci un futuro a quello che avrai. Quello che hai non è buono. Cambialo. L’ Alter-future è puro, non ci hai fatto ancora niente. Ma il futuro si basa sul passato. Questo futuro è autonomo; non ha passato. Non è mai stato usato.”
Per comprendere meglio questa logica del passato-futuro puro e da sovrascrivere bisognerebbe fare un passo indietro riguardo quello che pensiamo di sapere sul corso degli eventi, sul modo che abbiamo di guardare la Storia e, a maggior ragione, la storia coloniale. Il metodo migliore per capire è mettendo a paragone; tornando magari sull’ultima fatica di Scorsese, Killers of the Flower Moon. Anche questa infatti è un’opera di correzione, se vogliamo, del punto di vista nella dinamica nativi-invasori che punta tutta l’attenzione sul rapporto citato in apertura della stretta adesione a fatti realmente accaduti (e poi insabbiati) riportati dal libro da cui è tratto, Gli assassini della terra rossa del giornalista David Grann. Anche Killers of the flower moon come I peccatori è una massiccia opera di messa in scena volta alla ricostruzione di un inizio ‘900 sanguinolento e oscuro, ma allora dove si svolge la maggiore (e secondo noi migliore) professione di libertà dell’ultimo di Coogler? Magari nell’annosa questione della legittimità? C’è proprio il momento finale, quello del balzo in avanti nel presente – più o meno prossimo – che permette il raffronto più lucido: se Scorsese infatti liquida lo spettatore manifestandosi protagonista di una sorta di serata di stand-up comedy, Coogler non abbandona mai il nodo preponderante dell’intero I peccatori, ovvero il citazionismo ricolmo di una certa amarezza che viaggia tra i lustri – ecco allora Michael B. Jordan che più che citare omaggia Notorious B.I.G.! Anche Tarantino, col suo Django Unchained effettua un’operazione di questo tipo, e infatti in molti lo hanno accostato a Sinners, forse solo in maniera superficiale.
L’intera prima parte di I peccatori è un meraviglioso film storico, e infatti sorprende non poco la bellezza dei costumi; opera di Ruth E. Carter, due volte premio Oscar e sodale costumista di Spike Lee. E proprio lo stesso Lee più volte nel corso della sua filmografia affronta il tema del ribaltamento storico, anche in chiave magica e secondo le direttive di Sun Ra. Pensiamo a Malcolm X. O all’affascinante Chi-raq, che compie un rewind fino alla tragedia greca di Aristofane, la Lisistrata. O ancora al suo Apocalipse Now afrofuturista Da 5 Bloods nel quale predittivamente ammanta il compianto Chadwick Boseman dell’aura mistica di figura oltre il semplice attore per trasformarlo in icona black. E infine anche BlaKkKlansman, universalmente riconosciuto come uno dei picchi del cineasta di Atlanta, che ondeggia platealmente tra Storia contemporanea e mito, in questo caso dell’infiltrato Ron Stallworth nel Ku Klux Klan – non senza una sana dose di umorismo coltissimo. Spike Lee quindi gioca esattamente con l’idea di svincolamento dallo status quo storiografico per ridisegnare le traiettorie che anche Coogler ricalca, seppure sotto il nome del genere horror.
I peccatori porta avanti queste direttive e in qualche modo le amplia. Risulta impossibile non pensare alla sua affezione al fatto storico, che affronta a piene mani nel suo esordio Prossima fermata Fruitvale Station, nel quale come il The Washington Post spoglia il fatto conclamato e lo decentralizza, a mo di inchiesta nuda e cruda. Ma negli ultimi anni i casi in cui il cinema black affronta le riscritture di eventi traumatici si moltiplicano, svelando di fatto una inesauribilità anche creativa. Come nel caso di Nickel Boys di RaMell Ross (tratto dall’omonimo romanzo del due volte premio Pulitzer Colson Withehead), o del magnifico I Am Not Your Negro del visionario Raoul Peck; adattamento astratto (o meglio ancora magico, per tornare all’idea di alter) del pamphlet politico dello scrittore afroamericano James Baldwin – alla base della narrazione contemporanea della sfera afrofuturista. Proprio Peck si inoltra ancora nel racconto storico, e oltre Baldwin infatti nel 2017 dirige Il giovane Karl Marx, che nella sua ambizione realista – nel linguaggio e nella forma – manifesta l’aderenza più pura e sincera agli ideali e una figura di questa portata. L’aspetto più saldo che lega il mito è la veridicità storica, al di là di tutto però, sembra essere la figura del chitarrista Robert Johnson e Sammy ne I peccatori. Il primo infatti, secondo leggende alimentate da lui in primis, affermava di aver venduto l’anima al diavolo in cambio del talento che lo avrebbe consacrato a dio del delta blues. E Coogler in un qualche modo alimenta questo mito (e molti altri, come ad esempio la leggenda della chitarra di B.B. King, Lucille, recuperata da lui stesso da un edificio in fiamme, di cui Sergio Sozzo parla anche qui). Ryan Coogler sembra interrogarsi costantemente su cosa, e quanto credere. Come se il blues e la sua regia fossero al tempo stesso una provocazione nei confronti del plausibile, che non lascia fonti nel racconto storico concreto ma che piuttosto si muove in una linea d’ombra narratologica ancora da scoprire. Da riportare in superficie.