Speciale I PECCATORI – La trappola del Juke Joint

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Forse I Peccatori è soprattutto la storia di una trappola che Coogler usa per raccontare la limitatezza di alcuni immaginari e portare gli spettatori a contatto con il trauma della storia.

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È un percorso davvero stranissimo, quello di Ryan Coogler. Nasce con il cinema civile di Fruitvale Station, diventa, di fatto, una delle voci di punta della blackness pop degli anni ’10 con i due Black Panther ma è evidentemente consapevole di quanto costruire una consapevolezza sociale, un desiderio di lotta e di riscatto con le immagini contemporanee sia un fatto estremamente complesso.

I due film Marvel hanno in effetti la consistenza, lo si è già detto, di sogni lucidi, visioni nutrite di afrofuturismo legate ad un domani radioso per la comunità afroamericana, sicura e protetta in un Wakanda che ha tutta l’aria di essere uno spazio mentale, una terra promessa da cercare ogni giorno nella quotidianità ma in cui si potrà giungere forse solo in un altro tempo.

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Coogler offre in effetti al suo pubblico soprattutto un punto di fuga ideale, non tenta di rifondare da zero, nella dimensione pop, un immaginario legato alla blackness attraverso il quale gli afroamericani possano tornare a dire, al cinema, come ai tempi di Spike Lee, “Io sono”, “Io voglio”. Si protegge, piuttosto, nella mitologia dell’afrofuturismo, in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio che lo accomuna forse al suo attore feticcio Michael B. Jordan, legatissimo ad un altro contesto magico/escapista, quello dei manga e degli anime.

Ed è ovvio che questo rapporto così complesso con certe immagini sia forse una delle ferite più gravi di un regista mai così tormentato dai dilemmi etici, dal modo più giusto di prendere posizione all’interno dei meccanismi del cinema industriale, che costantemente chiede conto agli altri, al suo pubblico, ma evidentemente anche a sé stesso, del proprio agire, come si scriveva giustamente qui.

Speciale I Peccatori

Ecco, forse, che I peccatori diventa allora il luogo in cui il meccanismo del dubbio finisce per farsi più profondo. Anche perché il dato è tratto, lo stranissimo patto col male è stato firmato: Vulture, tra i tanti, ha studiato il complesso contratto che ha legato Ryan Coogler alla Warner Bros per i lavori sul film e definisce l’accordo rivoluzionario, mai così vantaggioso per il regista, che ha avuto il director’s cut sul film, svariate percentuali sugli incassi e, soprattutto, potrà tornare in possesso del suo lavoro e dei suoi diritti tra venticinque anni. Forse ce l’ha davvero fatta, Ryan Coogler, forse, perdippiù da esponente di una minoranza, è riuscito a rompere certi pericolosi ingranaggi del cinema popolare. Ma sarà davvero così? O è vero anche il contrario? E se Ryan Coogler è diventato comunque parte di quel capitale bianco che sembra terrorizzarlo?

Forse I Peccatori è un film che ragiona di un tradimento già avvenuto, forse è soprattutto la storia di due fratelli che tornano a casa e non la riconoscono più.

Ma c’è ancora una casa, un’identità, uno spazio sicuro a cui tornare? Ha ancora senso interrogarsi sui modi di tornare a casa (magari “seguendo” un deal milionario) se la casa rischia di non esistere più?

Colpisce, in effetti, proprio ragionando di cinema, identità, cultura profonda, quanto il più grande incasso del cinema afroamericano pop, oggi sia (anche…forse?) un giocoso omaggio alla Blaxploitation, che prende i caratteri di quello che fu, forse, il primo grande immaginario identitario black al cinema, li riscrive, li ripensa, li tira a lucido ma forse non risolve e, anzi, porta a vivo, il grande dubbio sotteso a quelle immagini. Perché se è vero che la Blaxploitation è stata uno spazio sicuro per gli afroamericani al cinema, è altrettanto vero che, con il tempo, è divenuto un pericoloso crogiuolo di cliché, ossessioni, stereotipi del loro stesso pubblico medio, più o meno silenzioso strumento di controllo della blackness da parte del corpo sociale e, in ultima battuta, spazio creativo comunque gestito dai bianchi. Lo ricorderà nel 2002, in un’intervista, il maestro Melvin Van Peebles, regista centrale del genere che con il tempo si rese conto di quanto la popolarità ed il conseguente controllo di Hollywood su di esso avesse soppresso il suo intrinseco messaggio politico rivoltandolo contro il suo pubblico.

Ma si può davvero parlare di Blaxploitation in rapporto a I Peccatori?

In realtà è curioso come il film venga ricondotto all’immaginario della blaxploitation solo quando viene raccontato da altri, dalla critica, dai commentatori social, dai blog, quasi fosse un dettaglio vuoto, da evocare per istinto, magari legandolo ad un’idea di B-Movie.

Di certo c’è che Ryan Coogler, che ha raccontato in promozione il film in lungo e in largo di blaxploitation parla raramente. Ma andiamo per gradi.

Nella sentita lettera di ringraziamento al pubblico che Coogler ha pubblicato sul suo Instagram lo scorso 22 aprile, quando I Peccatori aveva già infranto svariato record d’incassi, il regista si prende qualche riga per citare quelle che definisce, in inglese, cinematic influences, cioè amici, colleghi, compagni di strada che hanno in qualche modo influenzato il film. Tra gli afroamericani citati si leggono però, oltre a capisaldi come Oscar Micheaux i nomi di maestri “post” Blaxploitation come John Singleton, Spike Lee, ma soprattutto di registi suoi contemporanei come Steve McQueen e Ava DuVernay e Barry Jenkins. Poi, si, tra i citati, si intravede anche il grande Bill Gunn, regista del seminale Ganja & Hess.

Speciale I PECCATORI

Però il tutto ha il sapore di un fatto compiuto, di un punto di passaggio, una citazione a suo modo obbligatoria ad un monumento che sarebbe inammissibile ignorare e che tuttavia rimane bloccato in un passato ormai irraggiungibile.

E in effetti I peccatori sembra raccontarci un’idea di blaxploitation, polverosa, in cui forse anche il film non crede fino in fondo, divertendosi, piuttosto, a mettere in crisi i capisaldi del genere: l’esplosione di violenza pulp finisce per essere costantemente ritardata, il sesso ha un retrogusto mortifero ma è forse soprattutto la supposta ostilità dei bianchi a venire ridiscussa. Al di là di tutta la storyline che lega i gemelli al Klan, si fa in effetti fatica a considerare un vero villain (almeno superficialmente) il vampiro Remmick, che con il tempo offrirà agli avventori del Juke Joint soprattutto la possibilità di scampare, attraverso il vampirismo, alle persecuzioni razziali di cui sono vittima. Semmai il vampiro irlandese è animato da istanze duali, discutibili, teso com’è tra la distruzione ed il desiderio di protezione, la ricerca di cosmopolitismo ma anche l’annullamento di una legacy.

Si potrebbe dire che Ryan Coogler si conferma un autore di profonda intelligenza. Non solo ripensa i segni della blaxploitation adattandoli al contemporaneo ma porta in primo piano l’idea di un immaginario “trappola” per il suo pubblico afroamericano, come in fondo il Juke Joint lo è per i gemelli ed i loro avventori e collaboratori.

Nella lettera, ma anche nelle interviste rilasciate da Coogler (come in questa lunga conversazione con David Sims di The Atlantic), si legge però anche altro, si sfiorano altri nomi, nomi di bianchi, da John Carpenter a Stephen King, passando per i fratelli Coen.

È un’altra grande mossa di Coogler, potrebbe dire qualcuno, la palla curva di un autore politico che accontenta davvero tutti: infiltra l’immaginario bianco e lo rilancia immerso nella blackness, confeziona un prodotto adatto ad un mercato in sintonia con un capitale che certamente afroamericano non é (“vorrei aver realizzato un grande film simile ad una canzone blues”, dirà in quell’intervista e forse il senso di tutta l’operazione è proprio in quest’ancestralità da tramandare oltre ogni target) e, soprattutto, non tradisce la sua identità.

Certo è evidente che il regista si muove in questo immaginario so white in un modo tutto da discutere. Viene da chiedersi, ad esempio, se davvero saboti dei riferimenti del cinema bianco che in realtà sono esposti in piena luce, come a indicare allo spettatore che è proprio a Carpenter, è proprio ad Alan Parker ed Angel Heart, che anche lui sta guardando.

Non c’è vera militanza in certe immagini de I peccatori, non c’è politica in quel Dal Tramonto all’Alba che è poi la grande reference che continua ad essere evocata parlando del film, ci sono piuttosto riferimenti potenti ma evidenti come quelli della postmodernità, come se dietro a I Peccatori si nascondesse un folle ritorno a quella dimensione, una riflessione sul mattone, sul frammento, sullo strumento di costruzione dell’immaginario più che sull’immaginario stesso, un’analisi che tuttavia sembra arrivare col fiato corto, quando ormai è tutto finito. Come se alla fine quel Juke Joint fosse anche un museo di certo cinema (bianco) che è stato.

Non c’è ideologia in quei fotogrammi forse perché l’elemento politico, fortissimo, de I Peccatori è da tutt’altra parte, forse perché non si può costruire una narrazione militante con qualcosa, con degli immaginari, che rischiano ormai di essere stati traditi come il blues “potenziato” dall’elettricità suonato da un Sammy ormai anziano nel finale.

Forse bisogna davvero ripartire da zero, per riscoprirsi, davvero, Black.

Ecco forse spiegato lo stranissimo respiro del film di Coogler, che è due film insieme, che entra nel vivo dell’azione solo quando finisce, che si risolve pienamente solo dopo i titoli di coda, che pone il centro di tutto in un passaggio solo apparentemente preparatorio, nella lunga premessa che racconta il road trip di Sammy e dei due gemelli per reclutare il personale del Juke Joint.

È una sorta di roadtrip agrodolce come il blues (lo scrive bene il critico dell’Hollywood Reporter Richard Newby), tutto immerso nella storia traumatica della blackness. Dentro ci sono le piantagioni dove nessuno lavora più come schiavo ma su cui aleggiano comunque rimandi a quei tempi oscuri, c’è il dolore, c’è l’ancestralità del voodoo, ci sono la musica e le sue contraddizioni.

Solo così, forse, il film si scuote, diventa quasi una ride, un film immersivo attraverso cui far confrontare gli afroamericani di oggi con la loro legacy, uno spazio con cui entrare in contatto quasi in modo fisico, carnale, (come il sesso, di cui il film è puntellato), perché solo toccando con mano si arriva alla consapevolezza di una legacy.

Forse solo così, a margine, Ryan Coogler acquieta il suo sguardo, chiarendo quanto la cinefilia non debba essere necessariamente un fatto ideologico, sottolineando la necessità di altre basi da cui partire, forse consegnando alla Warner il film che voleva ma chiudendo il suo film ben prima del tempo, come in una rivalsa personale.

Forse così può calmarsi, Ryan Coogler, almeno fino alla prossima volta.


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