Speciale I PECCATORI: quando la distopia-horror racconta un popolo

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Per Coogler, la parità tra bianchi e neri risulta conseguibile non nel mondo reale, ma solo nelle cornici allegoriche del vampire movie: assurto ora a caleidoscopio del cinema horror più politico

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Così vivremo tutti insieme, senza che ci siano disuguaglianze a dividerci”. Si potrebbe partire da questa esortazione, avanzata dal leader dei vampiri Remmick (Jack O’Connell) nel momento spartiacque de I peccatori, per decodificare molti dei discorsi che Ryan Coogler dissemina nel suo ultimo film, declinati in un’ottica di pura distopia orrorifica. Se ci pensiamo, l’arrivo del “mostro bianco” alle porte del juke joint gestito dai gemelli Smoke/Stack (a cui presta il volto Michael B. Jordan) e la proposta di uguaglianza e di unitarietà di esperienze e vissuti che il demone presenta al gruppo di personaggi afroamericani rinchiusi all’interno del (loro) locale, non solo rivela la dimensione di subalternità in cui il popolo black è ancora costretto ad agire – specialmente nell’America meridionale di inizio anni Trenta – ma materializza al tempo stesso una dura verità, con cui ogni americano dalla pelle nera, sembrerebbe suggerire il cineasta, deve suo malgrado interfacciarsi: ovvero che l’abbattimento delle differenze tra afrodiscendenti e bianchi, e il raggiungimento di una condizione di parità assoluta tra le due “anime” della nazione, può essere sublimato nell’America passata (ed odierna) solo nella cornice “fantastica” ed allegorica generata dal surreale fenomeno della vampirizzazione. E non nella realtà. Perché nel mondo reale, quello in cui si muovono i protagonisti – e metaforizzato dallo spazio “liberatorio” e potenzialmente catartico di un juke joint esclusivamente calcato da neri – il divario tra i subalterni e coloro che detengono il potere risulta impossibile da colmare. Anche a causa dei “peccati” di cui gli afroamericani sembrerebbero farsi portavoce agli occhi dell’establishment statunitense a trazione caucasica, discussi qui da Coogler grazie ad una sovversione – o inversione – di alcune delle coordinate spaziali, temporali e narrative con cui i grandi autori della letteratura e del cinema horror a stelle e strisce (specialmente King, Carpenter, Romero e Hooper) hanno restituito una valenza politica alle loro memorabili visioni orrorifiche.

Prima di osservare le metodologie con cui Ryan Coogler assorbe – ribaltandole – le lezioni dei suoi illustri “mentori”, occorre spostare brevemente l’attenzione sulla struttura da “film-caleidoscopio” di questo I peccatori, così ostinatamente prono a rielaborare decadi di formule e codici sublimati dai maestri del cinema horror statunitense, per poi rileggerli alla luce della Storia (sia cinematografica che fattuale) del popolo black. Tra le innumerevoli osservazioni su cui il regista di Black Panther ha perciò fondato le immagini di Sinners, il discorso sul retaggio peccaminoso dei “neri del Sud” (di natura tanto politica quanto culturale) risulta da questo punto di vista quasi sineddotico, come se rappresentasse lo sfondo sul quale si stagliano tutti i concetti e gli spunti di riflessione che il cineasta americano desidera veicolare nel racconto. E seppur il “peccato originale”, ovvero l’elemento germinativo della “maledizione” che sarebbe calata sui neri, non viene mai veramente indagato in I peccatori (non essendo genealogico né genetico, ma frutto della sfera socio-politica del paese), Coogler non ha qui problemi a legare con una radicalità quasi mai vista il malessere esistenziale dei suoi omologhi – e quindi i loro supposti “peccati ancestrali” – al contesto di subalternità in cui (soprav)vivono. E lo fa ispirandosi alle narrazioni vampiresche e mostruose entrate nell’immaginario collettivo di tutti gli appassionati di cinema horror, fino a ribaltarle.

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I punti di riferimento de I peccatori neanche a dirlo, sono lapalissiani e colossali: eppure Coogler, per quanto li riverisca, non mostra mai una sudditanza nei confronti di quei paradigmi (iconografici, narrativi ed estetici) codificati, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio della decade successiva, da opere-immortali come La cosa, Le notti di Salem (1979) o Wampyr (1977). Anzi: fa di tutto per “omaggiare” tali testi attraverso un “tradimento” – o una ricodificazione – degli elementi che li hanno resi così paradigmatici ed influenti per intere generazioni di posteri. Se, ad esempio, il film di Carpenter generava l’incubo mediante la prossimità spaziale al nemico/omologo, mentre la miniserie di Hooper indagava il fenomeno della vampirizzazione in termini centrifughi (cioè il male si sprigionava dall’interno della magione), ora il filmmaker di Fruitvale Station inverte radicalmente le coordinate. La genesi della demonizzazione non è riscontrabile dentro le mura del juke joint, ma proviene dal mondo esterno dei bianchi, mentre all’orizzontalità carpenteriana oppone adesso un senso di verticalità, anche temporale, tanto da mettere in scena una connessione atavica tra diverse generazioni di personaggi black: come se il singolo individuo afrodiscendente, esponente di una cultura e di una Storia (sia collettiva che personale) traumatica, dovesse sempre fare i conti con i trascorsi dei propri avi – e con i vissuti dei posteri – ad un punto tale da rimanere schiacciato dal peso di un retaggio peccaminoso impossibile da sopportare nel mondo reale. Perché è questo che la società dei bianchi – incarnata, non a caso, sia dal trio di vampiri, che dagli ancor più diabolici membri del Ku Klux Klan – sembrerebbe voler rammentare ogni singolo giorno a chi, come i gemelli de I peccatori o il giovane “Preacher Boy” Sammie, aspira a liberarsi, anche per un solo istante, dai fardelli che sono stati loro imposti dalle istituzioni societarie.

Ed è proprio al cugino dei due fratelli che va legata la sequenza più emblematica del film, almeno per quel che concerne i discorsi che stiamo qui avanzando, e l’intergenerazionalità dell’esperienza black. Nell’atto centrale de I peccatori, poco prima che si approdi alle cornici dell’horror, assistiamo ad una scena davvero folgorante, capace di attaccare i sensi dello spettatore attraverso un tripudio di suoni e atmosfere folkloristiche dall’afflato idilliaco ed emancipante – contrarie perciò a quelle opprimenti e repressive de La maschera del demonio, della Creatura del diavolo (1966) o del The Wicker Man originale (1973), anch’esse opportunamente ribaltate – al punto da demolire ogni sovrastruttura che lo divide dallo schermo – e quindi dagli stessi personaggi. Qui il giovane Sammie, imbracciato la sua “dissennata” chitarra (e vedremo perché) inizia a suonare degli accordi blues: e non appena la “musica demoniaca” si espande nello spazio liberatorio del locale, ecco che Coogler annulla improvvisamente la distanza tra passato, presente e futuro, tanto da popolare il club di persone e strumenti provenienti da epoche differenti. Ogni figura, dal rocker di princeiana memoria alla percussionista tribale fino ai performer R&B ed hip-hop, uniscono ora le loro anime in un’unica melodia catalizzante. A testimonianza non solo dell’impatto intergenerazionale che la musica di matrice black ha avuto – e continua ad avere – sulla vita quotidiana degli afroamericani e sulla loro costituzione identitaria: ma anche della comunitarietà di esperienze, vissuti e disagi che lega potenzialmente i neri di qualsiasi decade del Novecento (ed oltre) in una nazione che fatica ad accogliere pienamente le loro sensibilità. E che non distingue i veri “peccatori” – cioè i detentori del potere – da coloro che sono circondati dal “peccato”, generato dalle deplorevoli disuguaglianze a cui è assoggettato il popolo black nel paese a stelle e strisce, e che solo la figura vampirica del cinema horror – vale a dire un essere irreale, testimone di una narrazione fittizia e distopica – può metaforicamente abbattere.

Al fine poi di comprendere questa intergenerazionalità del peccato materializzata dal tempestivo arrivo dei vampiri de I peccatori, occorre spostare brevemente l’attenzione sulla chitarra di Preacher Boy. Il giovane Sammie è convinto di aver ereditato lo strumento dal leggendario musicista Charlie Patton, quando in realtà apparteneva al violento padre di Stack e Smoke. In entrambi i casi, Coogler ha voluto qui citare figure legate, in maniera più o meno periferica, a questo retaggio peccaminoso degli afroamericani. Se il secondo era un uomo debole, incapace di canalizzare in comportamenti virtuosi le sofferenze della vita da subalterno, il primo invece era culturalmente legato alla persona, che più di tutte, ha contribuito a connettere – almeno agli occhi dei bianchi – i musicisti blues ad uno spirito demoniaco: ovvero Robert Leroy Johnson.

Il grande chitarrista e cantautore, alla cui “storia” Coogler si è ispirato per creare l’intreccio de I peccatori e alcuni suoi personaggi vampireschi, è considerato insieme a Patton il “padre del Delta Blues”, non solo per il suo illimitato talento artistico, ma anche per le straordinarie leggende che ne hanno accompagnato il nome. Secondo il “mito”, infatti, Johnson avrebbe incontrato ad un crocevia il Diavolo in persona, a cui consegnò la sua chitarra (riaccordata magicamente dall’essere demoniaco) in cambio della sua anima. Ed è da qui che sarebbe nata una delle ramificazioni più identitarie della musica black, originatasi sotto il segno di un “peccatore” d’eccezione, assurto adesso a sintesi della depravazione e della supposta dissolutezza morale di cui si farebbero portavoce i neri agli occhi dei suprematisti bianchi, e che solo la vampirizzazione – cioè qualcosa che esiste unicamente nella finzione horror – può arrivare ad estirpare nel paese americano.

Guarda che i bianchi apprezzano il blues, solo che odiano chi lo suona” dichiara non a caso il personaggio interpretato da Delroy Lindo, a testimonianza non solo della lucidità e dell’ironia con cui il regista de I peccatori rilegge una delle leggende fondative della cultura musicale afroamericana, ma anche dell’oculatezza con cui ragiona, sempre in termini metaforici, sulle disparità sociali che vigono nella società statunitense, e sull’onta inesorabile che grava sulle esistenze dei neri in ogni angolo del paese. E se gli stessi Stack e Smoke sono dovuti scappare da Chicago per motivi non precisati – probabilmente legati alla loro identità di gangster black alla corte “bianca” di Al Capone – anche nelle terre agricole del Mississippi rischiano di diventare delle pedine nelle mani dei mefistofelici proprietari terrieri. E che siano essi dei mostri di finzione e folkloristici (come il vampiro Remmick, erede e al tempo stesso contraltare dei succhiasangue esistenzialisti di Wampyr e di The Addiction) oppure dei suprematisti bianchi appartenenti al Klan, il risultato non cambia: perché tutte queste figure credono ancora di potersi servire della condizione di subalternità degli afroamericani per annullare i loro diritti alla parità sociale, e stigmatizzare a loro favore l’enorme bacino culturale di cui si fanno testimoni da tempo immemore. Non solo nella realtà, ma anche – e forse soprattutto? – nel cinema orrorifico statunitense. Sia in quello di matrice black (si pensi ai vampireschi Def by Temptation, Ganja & Hess o Blacula) sia nelle analisi socio-politiche messe in campo da coloro che sarebbero poi diventati i leggendari “padri” delle narrazioni horror della contemporaneità.


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