SPECIALE "IL CARTAIO" – Guardare, giocare, morire

Gli uomini-oggetto non sanno più provare né un senso né un sentimento ma solo un'interminabile angoscia dalla quale si esce con la morte o con crolli nel vuoto. Così Il cartaio e tutto il cinema di Argento. Universi chiusi delimitati da inquadrature asettiche, carceri interiori dove la paura non è spiegata ma rimossa da un'ansia ecceduta, onnipresente

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Sgranare gli occhi, sgranare un pop-corn. Non fa differenza, non la può aver mai fatta per Dario Argento. Lo ricordiamo in un cinema sbellicarsi a squarciagola dalle risa accanto ad Asia davanti alle gags demenziali di Una pallottola spuntata con gli spettatori che lo guardavano attoniti. Resta difficile immaginare in Italia migliore esempio di empatia sala-schermo, di occhio che parla ad altri occhi. Il talento, lampante ma disconosciuto, la ripetizione irregolare, l'incursione prospettica, costruita e naturale, l'oralità irritante, crudele ma necessaria. Sembra il ritratto di un giovane maudit. In fondo è sempre stato un adolescente e ad un pubblico di adolescenti nell'anima si è saputo rivolgere e come tali ha voluto trattare le materie attoriali che gli capitavano sotto mano. I suoi personaggi si muovono e parlano come quindicenni, esternazioni banali e squinternate, istinti immaturi controllati a stento. Anime imprigionate in corpi che cambiano: è da questo presupposto autoriale che dovrebbe partire ogni consueto rituale di massacro drammaturgico al quale assistiamo negli ultimi anni. Quello straniamento che non manca di far notare Giona A. Nazzaro rappresenta però qualcosa di più. Uno slancio giocato ma convinto verso una reificazione individuale, corporea, sociale. Un ritorno all'inorganico quindi, che faccia tabula rasa dei bilancini sociologici o delle lampade di Diogene alla ricerca di una verosimiglianza già di per sé spettrale. Gli uomini-oggetto così non sanno più provare né un senso né un sentimento ma solo un'interminabile angoscia dalla quale si esce o con la morte o con crolli nel fuoco, nel vuoto, figurato e non. Così Il cartaio, così tutto il cinema di Dario Argento. Universi chiusi delimitati da inquadrature asettiche, carceri interiori dove la paura non è spiegata ma rimossa da un'ansia ecceduta, onnipresente, ora anche nevrotica. Il Male come presenza panica è un organismo familiare che colpisce al di fuori di ogni schema razionale ed in quanto tale non deve più essere né atteso né giustificato. Non è importante l'enigma e la sua soluzione, il gioco-genere, il killer, il colpevole. I protagonisti sono cose, case, città, sempre più le città, barocche, gotiche, livide, umide, ciniche. Il senso è nella cosa e all'uomo non restano che giochini idioti che possono rovinare, cancellare o rilanciare una vita (videopoker, trappole mortali, rievocazioni di suicidi). Il risolino di Remo/Silvio Muccino che vince o il sorriso finale di Anna/Stefania Rocca è lo specchio di una critica che maltratta l'unica (?) risposta nazionale a Carpenter e Romero, è la cifra di questa umanità casuale, accidiosa, spaesata. Forse è con questo stesso spirito che un Argento forse stanco del panorama attuale ha voluto giocare la sua partita. Riassemblando stilemi, clichès, ritmi, Stivaletti, Simonetti, momenti. Traumi, sindromi, fantasmi, tenebre. Quei momenti virtuosi, magici, infernali, inaspettati che ci assalgono e che ci teniamo stretti. Ancora.

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