SPECIALE "IL CARTAIO" – La sindrome della non-comunicazione

Argento ricerca una nuova via per il suo cinema, e sembra tornare sui meccanismi del giallo. Ma i suoi detrattori hanno facile gioco confrontandosi con un film che, non basandosi su di una logica ferrea, ha i suoi momenti migliori affidandosi a pochi ma efficaci momenti di imprevedibilità.

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Il cartaio ha dei momenti di cinema suggestivi. La sequenza in cui la poliziotta Stefania Rocca è sola in casa, braccata dal maniaco con il passamontagna. La sequenza in cui il giovane genio del poker Muccino si confronta con l'assassino ed è costretto a entrare in un sotterraneo a fianco del Tevere; qui il giovane deve scegliere in quale porta entrare, e uno sparo nel buio lo costringe ad una decisione forzata. La sequenza in cui il poliziotto inglese, ormai amante di Stefania, ripercorre le tracce del maniaco fino a giungere nell'abitazione vicino al Gianicolo che sembra una citazione diretta della casa di Profondo rosso. Momenti di cinema riusciti, capaci di sollevare Il cartaio dalla media del cinema argentiano degli ultimi anni. Messe da parte le celebrazioni autoreferenziali di Nonhosonno, Argento ricerca una nuova via per il suo cinema, e sembra tornare di primo acchito sui meccanismi del giallo. Ma i suoi detrattori hanno facile gioco confrontandosi con un film che, non basandosi su di una logica ferrea (come sempre quando autore dello script è Franco Ferrini), ha i suoi momenti migliori affidandosi a pochi ma efficaci momenti di imprevedibilità. Argento ritrova anche il gusto per immagini che vanno alla ricerca di quel grado di genuina confidenza con lo spettatore; un tono "naif" e quasi colloquiale che rende più sopportabili, a tratti, gli evidenti limiti del film, e che non si riscontra comunemente nel cinema ingessato di oggi. Si pensi ad una sequenza che con l'horror non sembra avere niente da condividere. E' quando Stefania Rocca entra nel bagno del commissariato dove il giovane Muccino, nervoso, si sta fumando una canna. La poliziotta gli prende le mani e lo guarda come fosse sua sorella, o un'amica comprensiva. Argento dimostra umanità e attenzione per i piccoli fatti, quasi una partecipazione intima, forse molto di più di quanto non gli interessi la logica del racconto giallo. I critici si sono scagliati soprattutto contro la recitazione degli interpreti, e contro il prevedibile riconoscimento dell'assassino a metà film. Ma prima di dare dei giudizi sommari e poco pertinenti, dovremmo rivedere, innanzitutto, come rapportarci dinanzi ad un regista imprevedibile come Argento. Per non correre il rischio di finire incasellati nel sottogere risaputo che oggi potremmo intitolare "critici di Dario Argento". Pochi hanno notato come Il cartaio, in un certo senso, inverta la tendenza dell'ultimo Argento verso una certa spersonalizzazione. Qui, evidentemente, c'è più sentimento, c'è più tecnica, c'è più partecipazione non banale alla solitudine del personaggio della poliziotta Anna. D'accordo, le situazioni sono sovente pretestuose. Un esempio: Anna si trova da sola a casa, stà stirando, gira il volto verso una parete, ed improvvisamente dallo scaffale le cadono gli occhi su un libro che suo padre, morto suicida per debiti di gioco, aveva dedicato al poker. Poi, leggendo tra le pagine, scruta la frase: "Non sono gli occhi lo specchio dell'anima, ma il poker". Frase ad effetto, certo, ma anche una volontaria immersione nella mentalità del giocatore. Ed è come se il film di Argento ci riportasse nel laboratorio di un artigiano della paura, con le sue regole semplici, con lo spaesamento della poliziotta che, sopravvisuta all'attacco in casa del maniaco, si trova a puntare la pistola contro un muro di foglie, senza che il volto dell'assassino si mostri a lei. Perché in realtà Il cartaio è la messa a nudo fragile e sovraesposta di una ossessione che anche per Argento ha finito per perdere i connotati certi del maniaco di Profondo rosso. L'assassino è un individuo che naviga su internet, che gioca come un falsario (l'omicidio in differita), che uccide fuori campo (nella sequenza più "nuova" e al contempo più antica e tecnicamente consapevole di tutto il recente cinema di Argento). Se lo analizziamo al tavolino troviamo difetti, incongruenze, psicologismo non richiesto (l'omicida uccide perché è stato rifiutato da Stefania? E dietro cosa altro c'è?), ma qui, a tratti, il gusto per il cinema è intatto, l'amore per le immagini di disperata grazia, sopravvive. Anzi, Argento ha messo in qualche modo da parte le visioni autosufficienti dell'orrore che gli erano abituali. Ogni volta l'orrore può prestarsi ad una considerazione sulla perdita dell'anima. I corpi di donne morte, con qualche lieve concessione al gore, sono i cadaveri con cui dobbiamo fare i conti per riconoscere la perdita della felicità e della freschezza magari osservabile in un giovane volto di ragazza. Nel cinema di Argento almeno fino a Phenomena l'incolumità dei giovani volti di donna era uno dei motivi per cui lo spettatore si sentiva emotivamente coinvolto dalle immagini. Il cartaio agita invece una tensione molto differente; ora Argento tenta di comunicare con l'evidenza sensibile di un volto momenti dell'impossibilità a raccontarsi. Nelle prime immagini de Il Cartaio c'è un inquadratura insistita sul volto, silenzioso, di Stefania Rocca, visibilmente a disagio con il corteggiatore che si rivelerà essere il suo persecutore. Quelle immagini ci dicono di un disagio sordo, non comunicabile, non raccontabile con i meccanismi logori del cinema horror. Il cartaio ci parla dunque di questa difficoltà di comunicazione, amplificata simbolicamente da internet e dalla nuova non-reperibilità dei criminali che operano attraverso la rete. Argento, altrove capace di sequenze di grande effetto, realizza con Il cartaio un film piccolo e personale, di cui si vuole continuare a vedere soprattutto i difetti. Che ci sono, beninteso. Ma che non devono annebbiare l'evidenza.

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