SPECIALE "Il Cartaio" – Qu'est-ce que le cinèma?

“Il Cartaio” non è un film di Dario Argento. O meglio, è il suo cinema più vero col pilota automatico, col ritorno sul già filmato, con la deviazione in zone dove è comunque già stato presente. Ecco, dalle tracce di una presenza non si giunge mai alla stessa, ma ad un'assenza ancora più grande.

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L'ultimo film di Dario Argento dura poco, molto poco. Due minuti, forse tre, il tempo di mostrare un volto e di schiacciarlo in un (quasi) primo piano graffiato dai titoli di coda, prima della dissolvenza in nero, quella appunto finale. Il resto, o meglio, ciò che si vede prima, non c'è, è tutto racchiuso in spezzoni di sequenze scartate al montaggio nelle opere precedenti, in un copia e incolla a volte persino esatto, altre del tutto asincrono, fuori tempo, fuori cinema. E' così, ci muoviamo dalle parti di un cinema replicante, fatto di tessuti staccati da un corpo, da organi improvvisati che minano una struttura già pericolante. Il Cartaio non è un film di Dario Argento. O meglio, è il suo cinema più vero col pilota automatico, col ritorno sul già filmato, con la deviazione in zone dove è comunque già stato presente. Ecco, dalle tracce di una presenza non si giunge mai alla stessa, ma ad un'assenza ancora più grande. Dario avrà avuto il directors cut finale (quello appunto iscritto nella sublime e tremolante luce finale), la supervisione generale e qualcosina in più, ma ci si muove da fermi, si rinuncia forse per sempre al cinema, che in un certo senso è già stato. Tra l'omicidio e la sua diretta sul web c'è un lasso di tempo incolmabile, una differita agghiacciante pronta a nascondere un fuoricampo che germina dal film mancato. Il cartaio taglia il mazzo, non il corpo. Quello è già andato, ridotto a lastra fotogrammatica in cui imprimere il sapore di un gesto mancate, di un'operazione invisibile, temporalizzata da un cumulo di macerie annidate in set proibiti. Argento non gira più (dimenticatevi gli inarrivabili movimenti di macchina passati, le astruserie eccitanti di un linguaggio ignoto e misterico), si limita a disporre in ordine sparso gli elementi della scena, procedendo poi ad un'archiviazione distratta e casuale di corpi dissanguati, di viscere mancanti, di ombre di un omicidio commesso sempre da un'altra parte rispetto al luogo/set del ritrovamento. E così accade con la fisicità della struttura evocata: tracce appunto, orifizi stretti e nascosti (la vista della centrale di polizia) in cui accedere ad una parte minima dell'oggetto scopico, perché l'unità è persa in un selvaggio sovraffolamento di simulacri sbiaditi. Ma quello che sbaraglia in questo cieco rincorrersi di cieli terreni è la questione posta dallo sguardo (assente) di Dario. Il cinema è ancora? Oppure si tratta di una controfigura, di uno stuntman, di un sosia, di una luce presa da un altro universo? Dobbiamo soltanto metterci d'accordo, confrontarci, discutere. Eh si, perché se si dà un'occhiata in giro, è chiaro che il cinema non (r)esista più. O meglio, cinema risponde ad una generalità sfuggente, qualunquista, illusoria. Quella che poteva ancora reggere dieci anni fa, ma che si è ormai sbriciolata in una frammentazione indemoniata che cambia tratti e traveste forme. Ecco, pare allora che Argento abbia oggi azzeccato una possibile risposta alla domanda, ponendone poi semmai altre cento. E allora, in che misura Il cartaio aderisce al cinema (almeno quello prognosticato cento anni fa, o già di li)? Vediamo, in misura pressochè uguale allo zero. E' un'opera svogliata, un manifesto di sciatteria stilistica senza uguali (almeno per Argento), l'esibizione di un racconto che non ha nemmeno il coraggio dell'eccesso (Opera, La sindrome di Stendhal, Inferno, lo stesso pazzesco Non ho sonno). Eppure non c'è un momento di regia, di messinscena, di idea filmica, che non ci consegni nelle mani l'indecisione di chi non sa farci più nulla con il cinema (appunto, quello della definizione obsoleta), sgomitando come un pazzo nel tentativo di capirci qualcosa e di estrarre un fossile da cui ricavare poi un'intelaiatura. Così come la risibile decisione di gran parte del cinema italiano di oggi viene letteralmente uccisa da un pazzo (lo stesso Argento) che non sa che farsene di una racconto col quale altri avrebbero campato almeno tre film, pur particellizzandolo in piccoli atomi. Ne Il Cartaio vivono allora mondi sommersi, universi ancora sconosciuti che il cinema non sa filmare, che Argento non può raccontare, che noi non riusciamo nemmeno a intravedere. E' il trionfo di un'archeologia segnica con cui siamo cresciuti e che ora è il momento di abbandonare, sezionare, riversare semmai in un qualche libro di testo. Ma è soprattutto l'immagine di un regista che abdica, di uno sguardo vacillante, di un cinema che non è ancora cinema e che già non lo è più.

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