SPECIALE IL NOSTRO NATALE – Trappola di cristallo, di John McTiernan

Un’intera tradizione critica guarda al grattacielo Nakatomi come al perno iconico di tutta una corrente di pensiero: tutta una battaglia sul cinema industriale parte dal primo natale di McClane

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Non creiamo strutture simili per ragioni formali ma per tenere insieme la vita morale con quella fisica, dato che la seconda dura ovviamente molto più della prima. Il cemento, i mattoni, ecc rimangono, mentre le funzioni evolvono, l’economia cambia. Per questo motivo, gli spazi devono essere in grado di cambiare, di essere continuamente ricomposti. – Oskar Hanson

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I. Nakatomi
Bring together the moral life with the physical life, dice precisamente il quote, che rubo spudoratamente alla mia amica Stefania: e quante vite ha cambiato già il grattacielo della Nakatomi, dal 1988 dell’uscita di Die Hard in sala… nei miei 20 anni, preso dal fuoco sacro delle vertigini critiche sul cinema, mi colpì come un’epifania la scoperta che di film come Trappola di cristallo si potesse ragionare in maniera teorica e complessa – la conquista della vetta del Nakatomi da parte dell’anonimo sbirro John McClane, scalzo e in canotta della salute, per liberare la sua principessa rapita dai cattivoni, è da sempre il terreno comune su cui si fondano quantomeno le letture strutturali sul dispositivo dell’arcade movie a stazioni progressive e crescenti reinventato a fine ’80, o certe interpretazioni scopiche sull’uomo bianco che recupera la sua posizione verticale dominante sul fascino violento del conquistatore selvaggio e straniero.
Incredibile, per questo ragazzino convinto che di un film del genere si potesse ragionare unicamente durante gli inserti pubblicitari tra una replica e l’altra su Rete4, come quella volta che lo beccasti facendo zapping sulla tv di una camera d’albergo in gita con i compagni di scuola e rimaneste in stanza a riguardarlo insieme invece di uscire col resto della classe. Al contrario, un’intera tradizione critica guarda al grattacielo

nulla_è_eterno_joeNakatomi proprio come al perno iconico di tutta una corrente di pensiero: per me ogni cosa di ciò che penso sia ragionare sul cinema partì dall’esaltazione davanti a quei testi.
E’ per questo che mi rattrista profondamente il sistematico rifiuto di una visione simile su prodotti come il cinema di Joel Silver, operato da gran parte delle nuove generazioni di campioni della critica social e meno, che lascia il terreno unicamente all’approccio scanzonato e contenutistico d’importazione del fan criticism, per concentrarsi con dedizione sul recupero per opposizione di una cinefilia certificata e ostinatamente canonizzata a cui guardare però con lo stesso approccio spavaldo e gradasso che si aveva ad elevare McTiernan o Renny Harlin ad autori imprescindibili di un olimpo hollywoodiano aggiornato (58 minuti per morire sta a questo film, per dire, come White Light/White Heat sta alla Banana). Incrocio e leggo parecchi sguardi simili, e me ne sento lontanissimo. Per quello che conta.

II. Now i have a machine gun ho ho ho
Andando e venendo da Roma in quello che fu il mio movimento di avvicinamento per venire arruolato nelle fila di quelli che mi parevano i fulgidi continuatori della battaglia critica sul cinema industriale leggevo Nulla è eterno, Joe di Roderick Thorp in treno, in una copia sgualcitissima e ingiallita scovata nella collezione di Gialli Mondadori in cantina di mio nonno Evaristo. L’intuizione clamorosa di Steven E. de Souza nell’adattare il romanzo allo script di Trappola di cristallo, poi sistematicamente neutralizzata dalle ultime due avventure di McClane al cinema, rimane quella di aver trasformato il detective di Thorp in un eroe scazzato e controvoglia (in questo il terzo Die Hard, che pare incrociare McClane con L’ultimo boyscout di Tony Scott, è seriamente vertiginoso), stempiato, senza muscoli né particolari abilità sovraumane, il cui unico aiuto dall’esterno è un sergente afroamericano sovrappeso da sitcom sul divano: “Arnold era un sasso che parlava a monosillabi, Bruce il furbo con la parlantina, io me ne stavo praticamente zitto. Arnold non avrebbe potuto fare Rambo e io non avrei potuto fare Terminator. I nostri film erano pieni di noi, delle nostre personalità”, dirà poi il vero maître à penser di quella stagione, Sly Stallone.
La gioia del player Bruce Willis per aver guadagnato una mitragliatrice salendo di livello è la stessa di cui mi sarei ricordato “scrivendo” le sceneggiature della lunga saga action girata nello scantinato di casa con mia sorella protagonista e la 500 gialla di famiglia come veicolo indistruttibile, Mors Tua Vita Mea (30 episodi più vari spin off), o buttando giù l’ennesimo raccontino poliziesco della mia carriera preadolescenziale di scrittore a penna dietro i fogli dei mesi scaduti del calendario, Una bomba sotto l’albero, in cui McClane finisce a disinnescare pacchi regalo esplosivi la vigilia di Natale in giro per gli appartamenti di New York vestito da Santa Claus, ma con l’immancabile canotta sporca sotto il giaccone rosso con la pelliccia bianca (in un altro racconto, scritto a puntate sulle Smemoranda degli amici del liceo, McClane e Zeus espugnano il castello in cui Hitler, ibernatosi a fine conflitto mondiale e malauguratamente scongelatosi, ordisce i nuovi piani di conquista del mondo: a quei tempi si andduri_a_morireava in processione al cinema a sorbirsi robaccia come Codice Mercury o The Jackal, e bisognava allora aggrapparsi alle suggestioni delle vhs in edicola…).

III. Let it snow
Qualche anno fa, poco prima di cena a casa dei miei, guardavo una replica di Walker Texas Ranger in tv in cucina (quanti esegeti di Paul Haggis là fuori gli hanno mai dato un’occhiata?). La solita gang di prepotenti infastidisce un clochard in una viuzza nascosta ma, per fortuna dell’uomo, Chuck Norris si trova a due passi dalla scena, seduto per terra appoggiato ad un bidone della spazzatura, e in un attimo sgomina la banda a suon di calci rotanti. Mia madre, che continua ad affermare di avermi portato al cinema da piccolo su mia insistente richiesta a vedere Rombo di Tuono, che però è un film che ha giusto un anno in meno della mia età (l’aneddoto è probabilmente viziato dalle mille repliche delle sequenze clou del film di Zito che costringevo i miei genitori a mettere in scena in spiaggia ogni estate), scoppia a ridere sbottando: “ma che diamine ci faceva Walker seduto là dietro?”
Ecco, il potere immenso delle narrazioni grossolane è tutto contenuto nelle mille variazioni di cinema insite in una domanda così meravigliosa: il motivo per cui amo follemente il cinema action sopra ad ogni altra incarnazione per immagini è proprio la sua sincerità, la lealtà estrema nei confronti dello spettatore (ancora McTiernan, ovviamente: Last action hero) – quella di mostrarsi paradossalmente fragile, di mettere in scena in ogni istante i mattoni e il cemento con cui è costruito, in modo da darti la sensazione indescrivibile di poterti infilare tra le assi della struttura, far parte di una ricomposizione infinita che continua a rimettere in piedi ancora e ancora le stesse mura familiari che Chuck Norris farà saltare in aria con un calcio.
Walker era nascosto dietro il bidone perché questo è il cinema, un karateka col cappello da cowboy che salva un senzatetto da un pestaggio comparendo all’improvviso da un angolo buio dell’inquadratura. Era Gary Cooper, coglione.

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