SPECIALE "IL PETROLIERE": A contatto con la creta originale della carne: "Il petroliere" di Paul Thomas Anderson

Il petroliereSe Anderson in Magnolia aveva messo a morte il padre, ora il padre rivive di un meraviglioso e disperato egoismo affettivo che si nutre di solitudine, ossessioni e sofferenza; qui il figlio, su cui cala una coltre di silenzio, non sente più il padre, non può più comunicare con lui direttamente; ma soprattutto qui la paternità non è più un rinnovamento del padre nel figlio e la sua fusione con lui, e neanche un modo di esistere pluralistico. GALLERIA FOTOGRAFICA

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Il petroliereIl volto di un paesaggio desertico, la luce del giorno, il sinistro e stridente incedere di una sezione d’archi apre il quinto lavoro di Paul Thomas Anderson (Sidney, Boogie Nights, Magnolia, Ubriaco d’amore), ma è un attimo, come una scintilla infuocata provocata dall’impatto sordo del metallo sulla pietra; troppo breve per infiammare il vuoto, troppo fievole per illuminare l’oscurità, impenetrabile alla vista, delle viscere della terra; proprio così, perché questo film è un discesa nel grembo della “madre” terra; una catabasi, segnata nell’intimo da un desiderio inconscio di morte, senza essere restituiti alla luce; pochi istanti e già si è sepolti vivi nella nera, umida terra. Non c’è da stupirsi se Paul Thomas Anderson abbia fin dall’inizio filmato gli atti preliminari della sepoltura. Darsi alla morte o anche dare la morte, come anche nella bella sequenza in cui Daniel Plainview trascina e rotola Eli Sunday in una pozza di fango, meravigliosa uccisione simbolica che ne precede quella reale nel finale. La scatola ossea, rocciosa, della prima inquadratura è, dopo un solo istante, già forata, squarciata, costringendoci a vivere la morte nella sua funzione di accoglimento. Qui la terra e la morte si rivelano come un grembo. Non è un caso che Daniel dorma sul pavimento, per essere più vicino alla terra. A contatto con la creta originale della carne.

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Cinema arcaico e ancestrale, di una intimità che affonda le sue radici nella passione per la notte; una notte che ingoia tutto ciò che deve nascere; una notte dalla quale lasciarsi divorare. La notte del mito. Il corpo di Daniel è quello di un novello Crono che si nutre del sangue della terra. Terra e sangue. In questa rapsodia in nero, intessuta di un romanticismo notturno e malinconico, la storia, quando essa fa capolino dietro il velo del mito (la scansione cronologica che accompagna gli avvenimenti: 1898, 1901, 1911, 1927…), è fatta solo dai padri e dai figli.

Il petroliereQui la lezione di Martin Scorsese (Gangs of New York … Ma anche Greed di Erich Von Stroheim come giustamente è stato ricordato da Massimo Causo) è stata mandata a memoria, ma con personale originalità. E se Anderson in Magnolia aveva messo a morte il padre, ora il padre rivive di un meraviglioso e disperato egoismo affettivo che si nutre di solitudine, ossessioni e sofferenza; qui il figlio, su cui cala una coltre di silenzio, non sente più il padre, non può più comunicare con lui direttamente; ma soprattutto qui la paternità non è più un rinnovamento del padre nel figlio e la sua fusione con lui, e neanche un modo di esistere pluralistico (Levinas).

E poi lo sguardo che si allarga fino ad annegare nel lago nero del cuore di una intera collettività, ogni esortazione a lacerarsi il cuore per ritornare al Padre è come soffocata nella pece che sembra invischiare da ogni parte questa notte dei tempi, anche Dio è un’illusione e i profeti sono falsi profeti, l’acqua non è più elemento che nutre la nostra immaginazione materiale di purificazione, morte e rinascita, ma elemento di un vuoto rito cultuale (la sequenza del battesimo di Daniel).

uesto cinema si nutre di elementioEppure questo cinema si nutre di elementi – Oh affascinante materialità del cinema!: l’acqua, l’aria che prende fuoco, il petrolio che macchia i corpi, ma soprattutto la terra che sporca i corpi e la polvere che vi si posa sopra, non era così anche ne I cancelli del cielo di Michael Cimino? Ma c’è altro: la luce che dà forma con i suoi riflessi a tutto ciò che colpisce (grazie anche allo stupendo lavoro del direttore della fotografia Robert Elswit abituale collaboratore del regista).

E poi l’epilogo nella dimora/casa/sarcofago dove si consuma l’interramento: una luce funerea, una scala da scendere, la sala da bowling, la stanza più interrata, altro sangue che scorre e la figura di Daniel ricurva su se stessa, inclusa in un silenzio agghiacciante … E a noi resta l’eco di un verso che ci risuona nella mente: Era per rannicchiarsi che voleva morire.

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