SPECIALE IL RITORNO DEL MONNEZZA – "Il passato che si lega al presente"

Recuperando un'icona cult dell'immaginario popolare nostrano, i Vanzina riescono nel difficile compito di riflettere sulla realtà odierna, sulla fortuna del personaggio e sul linguaggio italiano dei generi in rapporto alla cinematografia globale.

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I presupposti, si sa, erano tutt'altro che esaltanti e attiravano facili accuse di sciacallaggio rispetto a un cinema amato proprio in virtù della sua genuinità e totale mancanza di pretese. Qualcosa di affine a quanto la moderna moda dei remake ha innescato in quel di Hollywood, dove il saccheggio ai danni di un immaginario mitico sta attuando un progressivo impoverimento dello stesso.

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Il ritorno su un'icona così popolare come quella del maresciallo Giraldi poteva dunque apparire come un'operazione furba, volta ad attirare tanto il pubblico degli appassionati – complice la nostalgia canaglia e l'ormai sostanziale assenza di prodotti italiani di genere – quanto l'audience televisiva attraverso il nome dei Vanzina, da sempre legati a un cinema plastificato e denso di volti "stracult" (Enzo Salvi, Eva Henger eccetera). Invece il film funziona e i motivi del suo successo sono da ricercare in una insperata onestà e intelligenza di fondo.


Già il piglio filologico dimostrato è encomiabile: Claudio Amendola è figlio del doppiatore originale di Tomas Milian e nipote di quel Mario che le varie Squadre e i non meno numerosi Delitti li aveva sceneggiati. Ma è interessante anche lo sguardo che Vanzina pone su una realtà socialmente stratificata, divisa com'è fra giri di potere multimilionario e borgate popolari: due mondi che poi finiscono per tangersi in locali kitsch che testimoniano della multiforme e complessa vita romana.

Questa natura polimorfa si ritrova in realtà in tutto il film, che riesce per prima cosa a rispettare i canoni del "Monnezza-movie" tramite un'agile struttura che ingloba commedia, poliziesco, azione e un pizzico di sentimento (per quanto Monnezza e Giraldi siano personaggi diversi e questa è l'unica furberia dell'operazione); nello stesso tempo, però, il film dimostra una intrigante porosità che permette all'icona cult di diventare cartina al tornasole per la realtà italiana e per l'immaginario cinematografico globale. Infatti i vari riferimenti alla situazione odierna (l'euro di carta, la violenza negli stadi, i rapporti con gli extracomunitari) permettono al testo di risultare adeguato ai tempi e assumere valenza universale, mentre le varie citazioni da più celebri titoli americani (il combattimento alla Matrix, i titoli di testa in stile Pixar) sanciscono la volontà vanziniana di dare a Giraldi e al poliziesco popolare italiano una specificità paradigmatica. Da questo punto di vista il parallelo con Kill Bill, che Il ritorno del Monnezza stabilisce in alcuni passaggi, è perfettamente congruo alla sostanza del film: non perché il valore assoluto dell'opera sia affine a quello del capolavoro di Tarantino, ma perché Vanzina intende usare il citazionismo per dimostrare come, per una volta, sia possibile pensare un cinema che saccheggi simpaticamente l'immaginario americano, esattamente come avveniva negli anni Settanta (Giraldi in fondo nasce come degradazione di Serpico) e come avviene oggi, ma in senso inverso, con gli States che rifanno i nostri titoli: pensiamo a Profumo di donna o I soliti ignoti, e ai prossimi rifacimenti a stelle e strisce di Suspiria e Sette note in nero.


 

In questo modo è possibile anche una riflessione divertita sul culto sorto "dal basso" negli ultimi anni intorno a Giraldi, cui il film ammicca con la sboccata suoneria del cellulare: non è infatti un mistero che le più celebri battute di Nico Giraldi siano oggi utilizzate proprio come trillo del telefonino e proprio in virtù di questo è l'onnipresente apparecchio a fornire nel finale il ponte fra il presente (Rocky/Claudio Amendola) e il passato (Nico/Milian/Ferruccio Amendola). In quel momento Rocky ritrova il padre, ma nel contempo la scena rappresenta la firma ideale sul processo di riappropriazione di un linguaggio di genere che il film ha tentato di operare lungo i suoi 90 minuti di durata.


La cosa più intrigante, però, sta nel fatto che Vanzina è attento a non inficiare mai la natura schiettamente popolare e divertita dell'operazione con un eventuale piglio intellettualoide. Tutta questa sovrastruttura teorica, dunque, si cela dietro il film e non lo appesantisce mai, evitando le accuse di furberia.


Quindi il film è, anche, semplicemente divertente. Certo il ritmo soffre di alcuni momenti di stanca, ma l'insieme è godibile. Da rimarcare la freschezza dell'interessante Elisabetta Rocchetti e il lavoro di Enzo Salvi, che non gioca a "rifare" Bombolo, né a riproporre il solito personaggio stralunato delle varie Vacanze in…, ma trova una sua dimensione nel corpo del racconto.


Rispetto a un'industria statunitense che riprende i successi del passato per snaturarne la sostanza più intima i Vanzina indicano così una virtuosa direzione per l'attuale moda dei remake.

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