SPECIALE “IO E TE” – Ma di amori è tutta piena la città


Io e te
è un atto di sedizione fondato sul filo di un rapporto fragile, come tutti i rapporti. Una sovversione che Bertolucci attua, innanzitutto, nei confronti del cinema. E sempre più oltre, fuori dal cinema, contro le paure della contemporaneità

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io e teSi sta meglio da soli”, ripete il ragazzino tra sé, durante i suoi infiniti giri a vuoto o prima di affrontare il terrore di un’altra notte insonne. In fondo, la solitudine vale a evitare un bel po’ di problemi e fastidi, incomprensioni e ferite. È la garanzia di uno spazio inviolabile, un’ipoteca sul futuro, accesa sull’assoluto dominio delle proprie cose. La solitudine assomiglia alla libertà. Eppure, a ben guardare, richiede il paradosso di un eccesso di organizzazione. Per una settimana, quanta carne in scatola occorre? E quante lattine di coca-cola? E poi il dentifricio, lo spazzolino, la luce, i libri, la musica. Quante canzoni servono a occupare il tempo infinito di sette giorni? La solitudine non può fare a meno degli oggetti. Altrimenti diventerebbe un vuoto impossibile da colmare. E sono proprio quegli oggetti a rovesciare il rapporto, a ricondurre a quella servitù che si sognava di evitare. Mentre tutte le altre cose che abitano questo spazio sono una minaccia non prevista, ne modificano il volume e l’area, ne alterano la percezione, ne ridefiniscono e limitano i contorni. Questo mondo, così unico e mio, si popola di orrori senz’anima, di minacce pronte a saltar fuori dall’oscurità. Tutto assume una terza dimensione ignota. E tutto rimanda all’avvento del mostro supremo: una ragazza fuori di sé, vestita da gorilla. Il King Kong che temevi, ragazzo, ha un volto umano. È uguale a te. È tua sorella. È la tua immagine riflessa nello specchio delle paure e dei desideri, la materializzazione di un sogno o di un incubo venuto fuori dal fascio di luce del proiettore. E ora che farai?

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Bertolucci si muove da sempre in quella linea di confine tra l'angoscia e l’esigenza di aprirsi e di affidarsi. Quindi solo un abbaglio può portare a credere che Io e te condivida le stesse preoccupazioni del cinema che oggi va per la maggiore, quello sans amour. Bertolucci si rinchiude in una cantina, nello spazio tenebroso e protetto di un seminterrato, dove poter raccontare un altro assedio, il respiro affannoso di un ultimo tango ballato da soli (ognuno per conto proprio, giustamente, ma sempre e comunque battendo il piede allo stesso ritmo), al riparo dalle insidie della strada, fuori da ogni accordo o disaccordo. Ma è proprio sull’assenza di raccordo, quella che ormai ossessiona e rende ‘evanescente’ (e magnifico) il nuovo cinema di Malick, che lavora Bertolucci. La necessità di ricostruire una connessione, di superare quell’abisso che s’interpone sempre tra il campo e il controcampo. È vero. È quell’e che sta tra l’io e il te la congiunzione. Ma questo raccordo tanto labile da ridursi a una sola misera lettera va conquistata a prezzo di una fatica immane, richiede uno slancio sovrumano, umanissimo (ed è proprio uno slancio imprevisto quello che porta Olivia ad abbracciare Lorenzo nella scena più commovente).

 

io e teIo e te è un film esilissimo, il più esile di Bertolucci, il più esile degli ultimi anni, forse. Ed è tutto giocato in una cantina caverna, mito di Platone venuto fuori dalle luci e dalle ombre de Il conformista. Un altro piccolo cinema privato, animato dai nostri occhi soli. Eppure gli occhi son due, non a caso. L’esatta dimensione delle cose richiede due punti di vista. La visione è una congiunzione necessaria, la condivisione di due vite in un’immagine e il moto contrario, l’esplosione dell’immagine in due, più vite. E quest’esilissimo film è una delle bombe più potenti che si possano immaginare. Perché è tutto proiettato, con un’intensità accecante, a quell’uscita finale, quel giorno oltre la notte. Io e te è un atto di sedizione fondato sul filo di un rapporto fragile, come tutti i rapporti. Una sovversione che Bertolucci attua, innanzitutto, nei confronti del cinema. Non solo del proprio, perché, infine, supera le solitudini che gravano sulle sue storie, ma anche nei confronti di gran parte del cinema di oggi, di cui rimette in discussione, quasi mimandola, l’asfissia. E ancora oltre, nei confronti di tutta la storia del cinema conosciuta, amata e condivisa. E sempre più oltre, fuori dal cinema, la sovversione si compie contro le paure della contemporaneità. È l’istante in cui cita e rovescia di segno il fermo immagine finale di Antoine Doinel che Bertolucci chiude il film e si apre al di fuori. Chiude il cinema e racconta l’unica rivoluzione possibile prima e dopo il Novecento, la fede e il coraggio di condividere lo stesso spazio e ancor più di affrontare, fuori dal proprio spazio, il terrore di ogni altro fuoricampo possibile, in qualsiasi altro maledetto giorno che ci è dato da vivere.

"Hai fame di mondo", ragazzo. Te lo leggiamo negli occhi.

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