SPECIALE JIMMY P. – Parlerei di cinema tutto il giorno
Desplechin non ha il dono della sintesi. E, forse, proprio per questo, è istintivamente portato all'analisi. Non ha certo il rigore di un formalista, non punta all'armonia del quadro. Semmai ha l'ostinazione del metodico. Ma quando arriva all'individuazione di quegli innumerevoli elementi semplici, non ha più bisogno di perderci troppo tempo. Basta una ripresa e via
Desplechin non ha certo il dono della sintesi. I suoi film eccedono, oltrepassano i limiti stabiliti della lunghezza e della decenza, tendono sempre verso situazioni abnormi. E i personaggi sono fuori dimensione, oltre la norma. Scivolano lungo un piano inclinato, verso stati patologici accentuati. Fisici o psichici che siano, non fa differenza. È esattamente lo stesso. Perché il fatto è che tutti somatizzano, giungono a quel punto estremo in cui lo stato interiore, per trovare espressione, è costretto a superare gli stretti confini dell'animo e a uscire fuori, in superficie, sino a tradursi in una manifestazione esteriore. Vale a dire, in altro modo, che è lo stesso Desplechin a somatizzare il cinema, a trasformare i sentimenti in sensazioni e gesti, a riformulare in concreto qualcosa che si genera e si sviluppa a un livello interiore, molto più sfuggente, nascosto. Tutto diventa corpo, ritrova espressione organica, nell'azione e nella materia, fino agli estremi della malattia, anche la più assurda, e della violenza, anche la più efferata. Esther Kahn arriva a masticare dei frammenti di vetro, pur di non andare in scena. Sfoga nel sangue la sua paura. E cos'è quella malattia ereditaria che affligge la famiglia di Racconto di Natale? Di cosa soffre esattamente Junon, aldilà della precisione diagnostica dello script? E cosa spinge Henri all'autodistruzione, nonostante sappia di essere il "salvatore" predestinato? E l'indiano delle pianure, James Picard, è l'esempio più compiuto di questo processo interiore di formazione dell'espressione corporea. I suoi malesseri sono continui e debilitanti, i dolori alla testa, l'annebbiarsi della vista, il respiro strozzato, gli attacchi di panico. Eppure non c'è alcun "problema fisiologico", come stabiliscono con minuziosa cura gli specialisti del Winter Veteran Hospital di Topeka, Kansas. La causa di quei mali è altrove, nella psiche, e in un altro tempo, nel passato. L'oggi è solo una proiezione.
Ecco, il cinema per Desplechin è, giustamente, altrove. Si situa in un punto strano dello spazio e del tempo, che sfugge continuamente le premesse del reale o le necessità della storia. Si scrive e si gira al presente, ma si declina e si conclude al passato. E divina il futuro solo quando, nell'assurdo ordine dei suoi assetti, reincrocia davvero l'istante presente e ne coglie tutte le direzioni. Il cinema ha tutti i tempi sballati, sbagliati. E quindi non può avere forma quadrata, chiusa, precisa, non ha date o dati certi, non contiene parole vere. Pur se racconta con precisione l'accaduto, pur se è fedele alla storia, al libro, svicola, scivola, romanza. Fotoromanza. Tutto serve a dir altro, vale come sintomo. Se io voglio dire che il cuore è ferito, devo davvero aprire il cuore, sputare sangue, cavare gli occhi. Se voglio dire che l'anima sta cadendo a pezzi, devo davvero sbattere faccia a terra. Se voglio inquadrare la santità, devo partire dalle stimmate. Si possono abbreviare i tempi e arrivare dritti al punto, ricorrendo alla parola. Basterebbe dire semplicemente: "la mia anima sta cadendo a pezzi". Ma saremmo già fuori dal cinema. Nel foyer, nella sala d'aspetto o sul lettino dello psicanalista. E poi la stessa parola non vale a dire l'esatta sostanza delle cose. La parola non inquadra. Si parla sempre d'altro, oltre l'essenziale. "Parlerei tutto il giorno di sogni", dice Jimmy P., seduto sullo sgabello del barbiere. Ma è un'affermazione che vale appunto come una chiacchiera fatta dal barbiere o al bar. E significa "parlerei di sogni per non affrontare l'essenziale". Anche se magari proprio lì si nasconde la verità. Ma sempre a livello di traccia, di segni da interpretare, da comprendere, svolgere. Perché in fondi tutti (quei segni) parlano di me. È un gioco infinito. Che comporta le sue lungaggini, ha bisogno di più sedute.
No, Desplechin non ha il dono della sintesi. E, forse, proprio per questo, è istintivamente portato all'analisi. Non ha certo il rigore di un formalista, non punta all'armonia del quadro, alla perfezione espressiva del linguaggio, alla sintesi della visione o alla dimostrazione del teorema. Semmai ha l'ostinazione del metodico, quella sottile follia dei pazienti. Per cui si prende prima il suo tempo a suddividere, scomporre, estrapolare. Moltiplica le situazioni per semplificare, fino ad arrivare ai "puri fatti osservabili". Ma quando arriva all'individuazione di quegli innumerevoli elementi semplici, non ha più bisogno di perderci troppo tempo. Non ha motivo di ricamare, complicare o abbellire. L'essenziale è nudo. Basta una ripresa e via. Una scena, una ripresa. La fiducia conquistata con la semplicità.
Ecco il metodo. Che trova i suoi antecedenti illustri in John Ford e One Take Fonda (per questo la citazione letterale di Alba di gloria…). Rielaborato secondo l'insegnamento dell'altro padre dichiarato, Truffaut, quel suo modo d'intendere la scena come un segmento minimo, semplice, isolato, ma essenziale alla composizione finale del discorso. Baci rubati… E anche Truffaut, per di più, è uno che somatizza. E in questo senso Jimmy P., più che all'enfant sauvage, riferimento obbligato per il caso clinico, sembra guardare perversamente a Le due inglesi e Adèle H. (le lettere dette in macchina, il titolo col nome e il cognome puntato…).
Ma perché il metodo sia compiuto, occorre l'ultimo elemento. Georges Devereux. La possibilità dell'identificazione e l'esigenza di una soggettività dell'osservazione. Dall'osservatore all'osservato e dall'osservato all'osservatore. Transfert e controtransfert. Il cinema di Desplechin è al tempo stesso Jimmy P. e Devereux (ancor più perché si tratta di Amalric). L'espressione corporea che parla d'altro, e l'esuberanza che torna all'essenziale. "Devi essere un po' meno esuberante", dice il direttore a Devereux. Ma se così fosse, dove sarebbe il mettersi in gioco? Secondo gli uni, il cinema presagisce il futuro, secondo gli altri racconta il passato. Manca il presente. Non dice nulla. Non riporta, ma riprende, quindi corregge (sbagliando a sua volta). Non comprende, ma guarisce (ammalandosi a sua volta).
"Parlerei di cinema tutto il giorno", per curare l'essenziale.