SPECIALE "La 25a ora" – La camminata di Monty

Tutti gli abbracci del film sono montati doppi, il contatto fisico è in due istanti, una sottolineatura retorica, nel senso greco del termine, che non stona con lo stile della tragedia: personaggi-stereotipi di un mondo rovinoso, percorsi catartici, riflessioni filosofiche universali.

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Monty cammina nelle strade di New York, lungo il fiume, nel deserto, come se attraversasse se stesso, per rallentare il flusso del sangue, una camminata che è un lento inesorabile abbandono. Una musica la riporta in scena, di volta in volta suonata con strumenti diversi, ognuno accorda il suo suono per arrivare alla sinfonia che li fonde.

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Salvare un cane non è proprio l'inizio della catarsi, è solo un seme, che alla fine, in mezzo al campo andato a male, servirà da testimone. Nel prologo ci sono segni che anticipano gli eventi, il sangue coagulato sul muso del cane, il faro dell'auto puntato in primo piano sullo spettatore.


Siamo spettatori di Ground Zero, il resto delle due torri sono due fari, sono le televisioni del mondo, sono pretese di luce.


I titoli di testa costruiscono in crescendo lo skyline della Nuova New York. Come un punto di partenza, indipendente dalla storia narrata, ma fondante per qualsiasi storia che si narra.


La locandina di "Nick mano fredda", ben evidente nella maggior parte delle inquadrature nella casa, è un simbolo della ribellione fatale, sta lì, ad ogni passo, come una pistola puntata. Il cinema è l'epica del novecento, e ogni personaggio è un archetipo, un destino.


'Fanculo ad ogni luogo comune sulle razze, sulle classi sociali, sempre più dentro fino a tutta New York, fino a se stessi, ogni 'fanculo è una buccia di cipolla da togliere, fino ad arrivare al niente del dentro, senza nemmeno riuscire a cancellarlo dallo specchio.


Abitare nell'attico che si affaccia sulle macerie delle torri è resistere o anestetizzare?


– Dicono che qui l'aria è malsana – chi lo dice? – il Times – ma io leggo il Post – qui qualcuno non dice la verità. La verità sono quei gesti oscenamente normali di un cantiere, una gru che scarica massi, due operai che rastrellano il terreno.


La verità è tutto quello che non ci si è mai detti, nel succedersi delle cene d'addio, non solo di Monty, ma anche degli altri personaggi che stanno andando da Monty, come se a tutti questo appuntamento desse un ultimatum, lo scoperchiamento della pentola da cui finora si è mangiato in compagnia senza guardare dentro. Il futuro si spezza, è il domani che pone l'interrogativo, quello che stiamo per fare, per dire, il posto dove stiamo per andare, come se potessimo, prima di scaraventarci sulla vita, restare un attimo sospesi, perché il futuro possibile, il progresso, sono diventati inutili. Monty è lo specchio in cui tutti ci troviamo, colti in fragrante dobbiamo andare a pagare, e fa differenza, "andare a" pagare, il movimento che richiede. La droga venduta e comprata, compresi quelli che hanno partecipato in silenzio ossequioso, è il sistema in cui ci troviamo, oriente e occidente, nord e sud, seduti tutti sopra la bomba-mondo, ognuno colpevole al suo livello.


Picchiare l'amico per rispettare una promessa, non è solo l'unico gesto disperato, è l'unico gesto che rompe, che assorda (è fisicamente il silenzio che pervade la scena), che azzera, per ritrovarsi soli sulla riva di quel fiume, che fin dall'inizio vediamo scorrere come un ritornello di una canzone, quel fiume che da lì, dalla città, porta al mare, trascina via, lentamente e senza tregua.


Tutti glli abbracci del film sono montati doppi, il contatto fisico è in due istanti, una sottolineatura retorica, nel senso greco del termine, che non stona con lo stile della tragedia: personaggi-stereotipi di un mondo rovinoso, percorsi catartici, riflessioni filosofiche universali.


Come quel finale reiterato, fin da subito fasullo nel suo sogno americano esasperato. Una morale da favola cattiva che fa credere per un po' in un congiuntivo – c'è mancato poco che non succedesse mai – e che invece ora, con il volto tumefatto, dobbiamo avere il coraggio di dire, al passato prossimo, che non è successo.


 


 

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