SPECIALE L'IPNOTISTA – Lasse Hallström, Vista da Cani

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Il cinema del regista sembra aver adottato oramai indistintamente la soggettiva del cane Hachiko: dimostra quella che sembra, fortunosamente, una vista da cani. . E all’improvviso ci appare come un autore interessante,  in grado di nuotare come i salmoni nello Yemen, per guizzi improvvisi, direzioni sbagliate, idee improbabili

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Quando l’ipnotista Erik si convince finalmente a trasportare la consorte Lena Olin all’interno del proprio ricordo dell’istante del rapimento del loro figliolo, la ricostruzione che Hallström fa del flashback rivissuto è un’immagine centrale dell’intera sua produzione recente, che sembra aver adottato oramai indistintamente la soggettiva del cane Hachiko nell’omonimo, rivelatorio film del 2009 con Richard Gere.

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Ecco, Lasse Hallström dimostra al giorno d’oggi quella che sembra irrimediabilmente, e fortunosamente, una vista da cani: il suo cinema sembra aver assunto la patina dai colori e dalla prospettiva sballata con cui a quanto pare gli amici a quattro zampe vedono il mondo. E all’improvviso ci appare come un autore interessante (senza ombra di dubbio, la vista da cani appartiene anche a chi scrive, qui non lo si può negare), uno in grado di nuotare come i salmoni nello Yemen, per guizzi improvvisi, direzioni sbagliate, idee improbabili.
Questo ultimo L’ipnotista ancora una volta, come appunto le sue sortite non a caso post-Imbroglio (è un dato di fatto che Dear John sia forse il film-Sparks definitivo, quello che più di tutti decide di portare sino in fondo l’insostenibile lacrimosità per accumulo delle storie dello scrittore-fazzoletto), cambia idea dopo ogni sequenza, si aggira tra le gambe dei personaggi ma non è fedele a nessuno, va da sé come un cane bastardo e malmesso avanza zigzagando senza meta – e poi infila un inaspettato finale action quasi da disaster movie, giusto per rimarcare che una volta scovato l’osso, Lass(i)e sa bene come non mollarlo.

E allora, la soggettiva di Hachiko, che tanti trovarono imperdonabile quando il film venne presentato al Festival di Roma, è il punto da cui ripartire per rileggere questo cineasta in qualche modo paradossalmente disumano, nell’ottica in cui Hallström non nega umanità ad alcun elemento del proprio cinema, non solo agli esseri umani: i cani, i pesci, la cioccolata, le case del sidro…a nessuno (a niente?) viene negata una soggettiva, che per forza di cose assume i colori simildaltonici dello sguardo canino, che aspetta il cinema fuori dalla porta – non a caso il daltonismo può essere causato dal diabete, per un autore che ha inanellato dai tempi di Mr Grape un gran numero di zuccherosi melodrammi, d’altra parte il genere forse più antiumano di tutti.

E torniamo al flashback sotto ipnosi di Simone/Lena Olin, unico momento visionario di un film che sembra tutto visto con gli occhi da cane bastonato di Erik/Mikael Persbrandt, breve trip timidamente misticheggiante nel quale infatti Hallström ritrova le tinte forti del suo sguardo pezzato. La soggettiva allora come segno di un cinema che oramai interpreta unicamente uno sguardo interno, interiore, che segue coordinate e ricostruzioni tutte personali e obbligatoriamente viscerali, scomposte, intestine, istintive, guardinghe come un randagio casanova.

Un cane da caccia che però nei boschi non c’è stato mai, e allora cerca la propria ragion d’essere sbirciando tra le camere negli appartamenti bui di Stoccolma senza trovare mai un perno, una coordinata unica (quante traiettorie inanella e abbandona L’ipnotista, che infatti mentre vola in panoramica aerea da end credits su città addobbata per Natale non riesce a non interrompersi per ripiombare alla porta di Magdalena/Eva Melander, in quello che è il movimento di montaggio più interessante dell’intero film), una struttura univoca, un senso definitivo. (L)asse X, mancante.

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