SPECIALE PASOLINI – Gli amici di Majorana


Come nel suo capolavoro saggistico e metaletterario Sciascia esponeva teorie, ipotesi e riflessioni a partire dalla vicenda umana di Ettore Majorana, così Ferrara intende il last day on earth di Pasolini come fulcro di una rete di suggestioni e derive del suo cinema più puro, le mille versioni mai coincidenti, e sempre ritornanti tra di loro, della verità su cui s'interrogava proprio il Pasolini di Petrolio

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Ha precisamente visto la bomba atomica?
I competenti, e specialmente quei competenti che la bomba atomica l'hanno fatta, decisamente lo escludono.
Noi non possiamo che elencare dei fatti e dei dati, che riguardano Majorana e la storia della fissione nucleare,
da cui vien fuori un quadro inquietante. Per noi incompetenti, per noi profani.

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Per noi incompetenti, per noi profani, il segno centrale del Pasolini di Abel Ferrara è quella copia de La scomparsa di Majorana che vediamo sulla scrivania del protagonista (a sottolineare l'importanza dell'elemento è anche una battuta precedente in cui PPP dice a Giada Colagrande di leggere assolutamente il “nuovo grande libro di Sciascia”): come in quel capolavoro saggistico e metaletterario lo scrittore siciliano esponeva teorie, ipotesi e riflessioni a partire dalla vicenda umana di Ettore Majorana, così Ferrara intende il last day on earth di Pasolini come fulcro di una rete di suggestioni e derive del suo cinema più puro, le mille versioni mai coincidenti, e sempre ritornanti tra di loro, della verità su cui s'interrogava proprio il Pasolini di Petrolio, non dissimili dal mistero della camera d'albergo di Strauss-Kahn che Ferrara mette in scena senza incertezze (queste, semmai, appartengono alle dichiarazioni traballanti date agli investigatori…), come fece già con le morti violente e celebri inserite nell'impianto doc di Chelsea on the rocks.
Ha precisamente visto la bomba atomica? Dare forma a questa domanda, altro non fa il cinema, quantomeno questo cinema (ce n'è un altro?), e allora d'accordo, saranno sicuramente omaggi stilistici bislacchi e anche grossolani quelli del Porno-Teo-Kolossal finale, e della lingua parlata sul set che pare quella degli anni in cui a Cinecittà passavano attori di ogni nazionalità e ognuno recitava nel proprio idioma, tanto la presa diretta non l'avrebbe mai ascoltata nessuno, coperta dal doppiaggio (C'è una sola risposta: la lingua di Ovidio e Virgilio, di Dante e Leopardi, era finita nelle immagini), ma il senso è probabilmente più in quella stazione Piramide (rovesciata) di oggi che Ferrara neanche traveste da passato, tanto è lì per interpretare il futuro (Quanto al futuro, ascolti: i suoi figli fascisti veleggeranno verso i mondi della Nuova Preistoria).

Roma è finita. Bisanzio è in fiamme: non troppo lontano dal nervoso aggirarsi del Pasolini ferrariano nella notte, il protagonista de I resti di Bisanzio, film-molotov di Carlo Michele Schirinzi, solo, o quasi, sul vecchio litorale tra ruderi di antiche civiltà, Ravenna, Ostia, o Bombay è uguale, usa anch'egli le proprie visioni come apparizioni e poi le piange e urla come scomparse (o bruciate).
Ancora un altro Majorana destinato ad un naufragio per acqua (il mare mi ha rifiutato), o forse da lì generato, nel film di Schirinzi il cinema è una sorta di sogno al quadrato, come gli uomini neri nell'episodio dell'aereo caduto di Petrolio messo in scena da Ferrara: non è cornice ma neanche attraversamento, sembra sempre bidimensionale come un volto scrostato di santa affrescato tra le rocce, o un incendio in un video di youtube, però puoi saltarci dentro e trattarlo come se fosse fatto con le corde della viola di John Cale (a thousand dreams that would awake me…). Ha precisamente visto la bomba atomica? Ci scommetterei.  

Come guardare negli occhi di Franco Maresco, che mai si vedono neanche quando il cineasta appare per un attimo all'interno del suo lancinante Belluscone, implosione assoluta e definitiva e perciò senza fiamme, piena di morti ma con un solo cadavere.
Autore postumo di se stesso, Maresco compie con Belluscone il miracolo di una scomparsa abissale e vertiginosa, che è chiaramente quella del soggetto (sia esso il regista stesso o Berlusconi), sparito nello zapping. In questo non dissimile da certi fulminei cameracar marittimi di sguardo turistico triturato in Schirinzi, o dalla bellissima sequenza in Ferrara con Pasolini che legge il giornale e ricrea con gli occhi della mente i fatti di cronaca nera (la forma narrativa è morta), quell'istante di Belluscone con Ficarra e Picone (li lascio alla fine, come il Festival di Roma) eruttati fuori dalla tv che risolvono la diatriba rusticana tra neomelodici come fossero mafiosi da operetta è un buco nero (hai voglia a parlare del "successo internazionale" di Gomorra la serie…) che ingloba e lancia in un feedback dolorosissimo, da occhi e orecchie sanguinanti, l'Italia intera e non solo il suo cinema, tanto che chiamarlo punto di non ritorno fa ancora troppo poca paura, in confronto alla sequenza in sé. 
Un immaginario oramai totalmente decomposto, come un partigiano morto prima del maggio del '45.

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