SPECIALE PASOLINI – L'inferno e il Paradiso

E' ispido Pasolini, come gran parte del cinema di Ferrara, può apparire respingente perché, al contrario è colmo di troppa passione. Con tutto lo sfinimento di un cinema che sputa il sangue. Come un sogno. Come un'ipnosi. Disturbante, inizialmente difficile da metabolizzare perché ha bisogno del suo tempo per essere quel grandissimo film che è.

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C'era una bara all'inizio. Abel Ferrara sulle tracce di un film gotico. Non era Pasolini ma Burying the Ex di Joe Dante. Eh, si, al Festival di Venezia erano partiti col film sbagliato. Eppure ci si voleva anche illudere che quello fosse l'inizio. E comunque, quella bara sepellita di un altro film ha condizionato. Willem Dafoe come un corpo dall'aldilà. Quasi una voce fuori/campo dall'aldilà, nel personale 'sunset boulevard' di Ferrara.

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E' ispido Pasolini, come gran parte del cinema di Ferrara. Può apparire respingente perché, al contrario è colmo di troppa passione. Nella mimesi sul suo corpo, in una trasformazione di Willem Dafoe oltre l'Actor's Studio perché Ferrara invece entra con la macchina da presa dentro la testa dell'attore e insieme dentro quella di Pasolini. Dove Roma è più oscura della New York di Paura su Manhattan, dove gli interni familiari nascondono quel senso di fato imminente di Fratelli.

Come un sogno. Anzi più di un sogno. Di quelli con Ninetto Davoli e Riccardo Scamarcio che galleggiano quasi nell'aria per vedere 'che cosa sono le nuvole', con l'intervista di Colombo, le scene in trattoria e gli incontri dei ragazzi come se fossero scene ripetute di un making of alla ricerca di quella scena perfetta che non ci potrà mai essere. Che può durare anche all'infinito ma nella ripetizione poi qualcosa scoppia, come il volto provato di Madonna in Occhi di serpente. Dove c'è tutto lo sfinimento, la fatica di un cinema che sputa il suo sangue nel momento in cui si sta facendo. Come se il post-noir statunitense e il poliziottesco italiano degli anni '70 non potessero mai incrociarsi.

Come un'ipnosi. Disturbante, inizialmente difficile da sostenere e da metabolizzare. Ha bisogno del suo tempo Pasolini per essere quel grandissimo film che è. Quel tempo di sedimentazione anche più lungo del normale cinema di Ferrara. Dove l'uso di lingue diverse non ha nulla di musicale, ma provoca invece attritto, dissonanza. Dove l'intervista può trasformarsi in uno sguardo in macchina. Che può sovrapporsi con il giornale. Si, è la voce di un morto che parla di se stesso. Forse della sua morte che è già notizia in prima pagina. E parte proprio da Salò, il suo ultimo film girato nel 1975. Una stella cometa per guardare dall'alto e volare. Come se Ferrara volesse rispostarsi nelle zone da 'fantascienza' del suo Ultracorpi. Ma il volto di Dafoe attraversa in tutto il film, scivola nei frequenti carrelli e soprattutto crea sì, il suo miracolo, di uno strepitosio finale dove lui si vede anche quando non c'è.

Altro che "Pasolini dopo questo film è morto 2 volte". Qui Pasolini è vivo 200 volte. Come l'Aldo Moro di Buongiorno, notte di Bellocchio. Troppo grande, un'ombra troppo imponente per poter essere racchiusa e che esce dallo schermo. Chi non vuole questo film, può restare impantanato nelle zone più rassicuranti di quello del 1995 del rassicurante cinema di Giordana. E chi vuole questo film, vuole bruciare all'Inferno. E quindi volare nel Paradiso. E' tutto in quella bara all'inizio. Di Joe Dante? Di Pasolini?

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