SPECIALE PINOCCHIO – "Pinocchio": il cinema come "ombra d'amore"

Questo piccolo, intimo e dolcissimo capolavoro benignesco è il suo A.I., ovvero la trasformazione dell'amore assoluto in forma narrativa, dalla mancanza di vita (lì il corpo artificiale, qui il corpo di legno) al desiderio di una vita vera, assoluta, vissuta attraverso la massima determinazione a esprimere e provare tutti i sentimenti possibili.

--------------------------------------------------------------
CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

--------------------------------------------------------------
















Benigni/Pinocchio

Benigni è davvero "troppo" per  l'apparato intellettuale nostrano (e usiamo questa espressione perché quella di  "critica" sarebbe riduttiva, avendo scatenato il Pinocchio di Benigni le "riflessioni" e i commenti di personaggi che vanno anche al di là dei nostri "critici ufficiali").  E' un qualcosa che sfugge, che come un'anguilla ci scivola via da tutte le parti, che ci costringe continuamente e rimettere in discussione ciò che pensiamo di lui, della vita, del mondo (del cinema…). E' un elemento "disturbante" che produce l'esatto contrario del cinema "impegnato" che tanto piace ai nostri grandi signori della cultura "di sinistra/centro/destra" (vedi Mr.Mullan, o le operazioni italiote recenti): ovvero ci libera lo sguardo. Ci scaccia fuori dai luoghi comuni dell'immaginario, ci scaraventa dentro un Paradiso comunicazionale che non sappiamo assolutamente cosa sia. Ed è proprio in questo regno magico, in questo smarrimento della percezione del reale, in questo doppio, triplo gioco dell'immaginario che Benigni ci colpisce a ripetizione, con lo stesso effetto che mette magnificamente in scena nella sua prima straordinaria apparizione nel film. Ovvero quando si presenta a noi nelle vesti di un pezzo di legno birichino e irriverente, pronto a portare i città quel disordine, quell'indisciplina, quel caos energetico e passionale che è tutto dentro il mondo dell'infanzia. Ed è per questo che i bambini capiranno subito Pinocchio, e gli adulti intellettuali pre o post moderni (ma sempre incapsulati dentro l'ipocrisia di uno sguardo accecato dai pregiudizi ideologici)  invece no.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Benigni_è_PinocchioBenigni, intanto non "fa" Pinocchio, è Pinocchio.

Per questo ci appare tanto più lui proprio nelle uniche due scene, la prima e l'ultima, in cui in effetti materialmente non appare. Nella prima è un pezzo di legno e nell'ultima una pura ombra. Eppure è lui, e lo vediamo come non mai, irriverente e selvaggio scorrazzare prima nella città messa a soqquadro, poi nel volo libero di un finale straordinario. Gli hanno chiesto, fino allo sfinimento, "perché" Pinocchio. E lui a "difendersi" dicendo che da sempre lo voleva fare, che Fellini lo chiamava Pinocchietto, quasi a dover dare spiegazioni di essere nient'altro che se stesso.


Hanno scritto: Benigni si annulla, si nasconde dietro il personaggio. E giù a raccontare in giro che il film è freddo, non fa ridere, è troppo "perfetto" visivamente…..  Vien da ricordare le critiche similari ricevute alle prime proiezioni de La vita è bella, per non parlare delle stroncature di quel capolavoro che era Il mostro….  Ma proviamo a ragionare con il cuore, con la pancia e i muscoli dei sentimenti che piacevano a Troisi (che avrebbe amato questo film). Benigni é Pinocchio. Da sempre. Perché Pinocchio rappresenta quella mistura di innocenza e vitalità, di perversione e gioia di vivere, di cecità di fronte alle mostruosità della vita e di ingenuità sociale che tutto il cinema di Benigni ci mostra e racconta da anni.


La_vita_è_bella/Pinocchio

Prendiamo La vita è bella. E alla realtà doppia della vita del campo di concentramento (anche qui la prigione, come in Pinocchio, no?).  Anche qui il personaggio passa dall'innocenza e goliardia della sua vita quotidiana (gli scherzi al gerarca fascista) alla durezza della vita del lager. Da un lato la realtà del duro lavoro del campo (Benigni che fatica sotto gli occhi dei nazisti), dall'altro la favola del bambino che crede che sia tutto un gioco. Quando Pinocchio, nella scena più crudele del film, letteralmente si ammazza di lavoro per soddisfare il piacere e la salute cagionevole di Papà Geppetto, altro non fa che replicare, rovesciandolo, il gioco: è il figlio che nasconde al padre la crudeltà e durezza della vita. E' sempre il doppio gioco dell'immaginario a prevalere.  E ne Il mostro, abbiamo un'innocente iconoclasta e dispettoso, poco ligio alle regole della maggioranza ( il suo "vaffanculo alla maggioranza" dovrebbe diventare il motto delle opposizioni nostrane….), che viene scambiato per un altro, per un mostro assassino, appunto. Anche qui la polizia lo cerca e lo bracca, ed egli corre, fugge, cerca di scappare dalla "favola nera" del mondo reale (e la poliziotta Nicoletta Braschi non è la prima versione, eroticamente solo un pizzico più esplicita della Fata Turchina?). In Johnny Stecchino il doppio è manifesto. Da un lato un'innocente e ingenuo, dall'altro un mafioso maligno e criminale. E la realtà che vista in superficie assume una dimensione "folle" (la scena delle banane all'opera è magistrale, nel suo segnare la distanza tra la verità e l'apparenza). Il piccolo diavolo poi, sembra essere le prove tecniche del pezzo di legno che irrompe in città, per il suo essere al contempo innocente e sacrilego, irriverente e passionale.


Se riguardiamo con un colpo d'occhio la filmografia di questo "mostro" toscano, non possiamo non rimanere stupiti dalla lucidità e continuità del suo sguardo sul mondo. Benigni è sempre un doppio, innocente e crudele, beffardo e maligno ma anche dolce ed ingenuo. E ogni suo film potrebbe essere un episodio delle avventure di Pinocchio, rivedute e corrette, ovviamente.


E allora ecco questo suo passionale, libero e sincero gioco da 40 milioni di euro, pronto a scorrazzare in giro per il mondo sotto il marchio ella corazzata Miramax. Non piace ai critici nostrani, che non possono stroncarlo (e se rivincesse l'Oscar, che figura ci faranno?), ma non sanno trattenere quella sufficienza che da sempre caratterizza il loro sguardo sul cinema di Benigni. E perciò si va da un "ha avuto paura di forzare un testo che amava troppo' (Crespi), a "adotta quella vocetta fessa e un po' melensa… e la regia è incerta" (Tornabuoni),  "non emerge il carisma di un personaggio nuovo, la moderna stilizzazione di un eterno alieno" (Caprara), "un Benigni intimidito dalla sua stessa adorazione del testo collodiano" (Nepoti) mentre solo un "critico ragazzino" come Roberto Silvestri sembra coglierne l'aura miracolosa ("un horror liberatorio, proprio come ogni fiaba riuscita… che comunica con gli estremisti di ogni età").


Il-Pinocchio_gotico_alla_Tim_Burton

Ma Benigni sfodera un film coraggioso come non te lo aspetti, semplice e immediato, complice e fedele intimamente al testo di Collodi (che non ha messo sui manifesti perché, come ha detto "sarebbe come scrivere che la Bibbia è tratto da romanzo omonimo di Dio"….) di cui sa cogliere le increspature del racconto, le dolcezze e contemporaneamente le durezze "gotiche" di alcune scene. L'impiccagione di Pinocchio da parte del gatto e la volpe sembra tratta da un film di Tim Burton (cineasta che avrebbe dovuto e potuto dirigere questo film cui Benigni sembra omaggiare molto spesso – e il suo saltellare per le strade del paese non è forse identico a quello di Pee Wee?).


Pinocchio è un film emozionale, che apre lo sguardo verso direzioni impensate. Ci illumina con un'apertura fantastica, la carrozza magica della fata trainata da centinaia di topolini, ci restituisce una Fata Turchina che sa essere al contempo meravigliosamente materna ed erotica (e pur sapendo di andare controcorrente, bisogna dare un plauso a Nicoletta Braschi, che sa essere sempre "al limite" di entrambi i ruoli), fino a scaraventarci nelle strade del paese con il tronco/benigni/pinocchio che irrompe devastando la quiete e l'ordine costituito. Poi Pinocchio si immerge nella fiaba, dove i grilli parlanti, i mangiafuoco, i gatti e la volpe, i giudici, i carabinieri e direttori del circo imperversano ( e chissà perché ci sembrano tutti personaggi presi dai talk show contemporanei…) e spara a ripetizione il suo meraviglioso istinto infantile che gli fa vivere il mondo, la vita stessa, come un magnifico dono da godere immediatamente, appunto senza mediazioni, ma di questo solo i bambini sanno bene di che stiamo parlando….


Pinocchio/A.I.

E' un mondo dolce e crudele, con una Fatina Montessori che lo aiuta a imparare dai suoi errori, per riuscire nel difficile compito di trasformare un burattino, per quanto vivo e animato sempre di legno, in un bambino vero.


Un bambino vero… come non pensare allora che questo piccolo, intimo e dolcissimo capolavoro benignesco non sia il suo A.I., ovvero la trasformazione dell'amore assoluto in forma narrativa, dalla mancanza di vita (lì il corpo artificiale, qui il corpo di legno) al desiderio di una vita vera, assoluta, vissuta attraverso la massima determinazione a esprimere e provare tutti i sentimenti possibili. Lì era l'amore materno a spingere il bambino artificiale fin negli abissi del mondo, qui è l'amore paterno (e meno male!) a spingerlo negli abissi fin dentro la balena. Per non parlare di questo personaggio che ha un po' del "controcristo', nel suo nascere – senza un atto sessuale – da un uomo invece che da una donna….


Ma raramente abbiamo visto nel cinema italiano un amore cosi incondizionato per i personaggi messi in scena, e davvero aspettiamo con trepidazione il DVD per veder cosa ha dovuto tagliare per le esigenze di commercializzazione internazionale del film, che immaginiamo Roberto avrebbe potuto trasformare in un'epopea fantastica di tre quattro cinque ore, un prodotto infinito che ci permetterebbe, da spettatori, di "addormentarci di felicità" nel vederlo, abbandonandoci a quelle immagini sincere, mai fasulle, che davvero ci liberano dentro, ci lanciano in un mondo che pure conosciamo (chi non conosce la storia di Pinocchio?) eppure ci danno i brividi ed emozionano come al cinema ormai capita sempre più raramente. E quello sdoppiamento finale, tra il Pinocchio divenuto bambino buono che entra a scuola e la sua ombra da burattino che lo abbandona e se ne vola via…libera e selvaggia, quasi come in un film di Jean Vigo o di Truffaut.


Non vorremmo sembrare ripetitivi ( ne parlavamo già per Spielberg di Minority Report), ma davvero Benigni come Spielberg, come Salinger, sembra voler  "fermare il mondo", trattenere con se i bambini dal crescere e divenire adulti. Forse perché lui adulto  (come Spielberg) non lo è mai divenuto completamente. Ed è per questo che, entrambi, fanno film su Pinocchio (facendo finta di omaggiare Kubrick e Fellini…). Ed è per questo che bisogna essere (dentro o fuori) dei bambini per comprenderli. E, oggi, sono i due unici cineasti di cui fidarsi. Almeno di quelli distribuiti dall'industria dell'immaginario.


"Nulla al mondo è più bello di Pinocchio", ha detto Roberto alla stampa:


"Nulla al mondo è più bello di Benigni", ci verrebbe da dire, se non suonasse come un puro atto d'amore che solo Troisi era riuscito a infondere nei nostri cuori malati (di cinema, di vita, di felicità necessaria).

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array