SPECIALE RITORNO ALLA VITA – Wenders è a casa sua, nel suo cinema

Questo atto d’amore verso il Cinema concepito ancora come possibile dimensione per superare il dolore tornando alla vita, ci è apparso un film magnifico oltre ogni “distaccato” giudizio critico

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Il centro di gravità del film è facoltativo, il patetico è irregolare, l’accento non è sempre grave, la libertà sfiora il lassismo. Ancora una volta, lo spettatore alla ricerca di oggetti perfetti resterà deluso. Ben gli sta. Quello che è sempre stato prezioso per Fassbinder, è l’arte di farci esitare durante il film tra diversi sviluppi possibili, tutti validi. In Veronika Voss, ci riesce benissimo. Si è parlato di manierismo di Fassbinder. C’è chi se n’è lamentato. Da tempo dava l’impressione di fare i film come se stesse sbrigando le faccende di casa: si è a casa propria, si conoscono tutti gli oggetti, si sa da dove vengono, non ci si serve di tutto nello stesso tempo, l’indifferenza è solo apparente, gli automatismi nascondono molto amore. Fassbinder era a casa sua nel suo cinema.” Serge Daney, 1 Luglio 1982

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Non so bene perché subito dopo la visione di Ritorno alla vita mi siano tornate vivide in mente queste parole, lette anni e anni fa e mai più dimenticate. Così si esprimeva il sommo Serge Daney su Veronika Voss e sul suo presunto manierismo, e credo non ci siano veramente parole più adatte per iniziare un discorso personale sull’ultimo film di Wim Wenders. È un film di fantasmi questo ritorno alla vita. Uno straordinario ossimoro-filmato venuto dal passato per tentare disperatamente un contatto con il presente. Un film-pensiero interamente concepito dalla libera soggettiva del suo protagonista-scrittore: siamo subito persi nel suo romanzo, trafitti dal suo trauma, bloccati nel suo foglio bianco, aggrappati a una macchina-da-presa ridiventata stylo mentre inquadra e ritaglia, affonda nella nebbia e mette i punti al tempo, lascia fuori campo il dolore e fa una delicata pressione sui nostri occhi. Wenders concepisce ancora il montaggio come frattura del tempo interiore (l’incidente, la morte, il lutto, tutto in fuori campo) e poi come sutura nel tempo dell’immaginario (le vertigini hitchcockiane, la slitta-della-memoria wellesiana), in un film giocato tutto nella lunghissima elaborazione di un dolore raggelato e anestetizzato che diventi pian piano Cinema negli umori costanti che pulsano sullo schermo. E allora via agli squarci visionari che dipingono l’inquadratura con i colori vividi di Nicholas Ray (tornati qui da dietro lo specchio, in un lampo nell’acqua da vero Nick’s Movie), sino alla multidimensionalità del Coppola anni ‘80 (sarebbe sorprendente rivedere adesso il loro film su Hammett, sempre uno scrittore protagonista lì!), per arrivare ai dilemmi edipici e archetipici dell’amato Elia Kazan.

121Un sogno lungo un giorno dunque (o lungo 12 anni, cosa cambia?), dove l’inquadratura diventi materia plasmabile dalla luce del “presente” e dalla rammemorazione di un “passato”, in un azzeramento dello spazio fisico che configuri la sublime superficialità di un sentimento tutto contingente. L’immagine. Wenders se ne frega delle mode e di tutti i discorsi sul post, e proprio come l’ultimo Belloccho è convinto ancora oggi che fare cinema sia condividere il sangue del mio sangue nell’immagine sul grande schermo. Inutile elencare i rimandi alla sua filmografia o alla sua biografia: dall’impossibilità della paternità ai dilemmi sull’arte come sublimazione del dolore, ecc, ecc. Questo film potrebbe diventare allora lo stato delle cose non più del cinema (come ci si sforzava di fare nel 1982), ma di un modo di fare cinema evidentemente in difficoltà a trovare un suo pubblico, evidentemente e fieramente anacronistico. È vero, quindi. Quello di Wenders non riesce proprio più a essere un cinema nel corso del tempo, non ne ha più la forza propulsiva perché è clamorosamente fuori da questo tempo e può solo rifugiarsi in una casa tutta sua (direbbe Daney). Rifugiarsi nel tempo immaginario di un sognante ragazzino senza padre che ha bisogno solo di un caldo abbraccio per tornare alla vita (proprio come nel finale di Nick’s Movie, appunto…).

3E allora sembra incredibile l’assonanza ideale con gli ultimi film dell’amico/nemico di sempre Francis Ford Coppola. Questo è un improvviso Twixt a ciel sereno targato Wim Wenders: anche qui uno scrittore che deve superare un lutto, anche qui un lentissimo ritorno alla vita segnato dal cinema-del-passato come porta sul presente, anche qui una lancinante sincerità registica che sfarina il film in mille rivoli possibili o falsi movimenti come calde aritmie. Perché qui come lì è la vita dei due cineasti ormai settantenni a prendere il sopravvento sui loro stessi film. Due cineasti che non hanno più nulla da dimostrare tranne il fatto di riconoscere una casa in quel grande schermo capace di restituirci ancora oggi (in Ritorno alla vita come in Twixt) il più umanista dei 3D, entrato miracolosamente in contatto con le nostre emozioni più intime. Forse la terza dimensione come dovrebbe sempre essere.

Conclusione, inevitabilmente, personale. Abbiamo deciso ieri sera –  subito dopo aver visto il film nell’unico cinema di Roma che lo proiettava in 3D – di buttar giù questo breve speciale senza centro. Senza nessuna struttura preordinata, nato d’istinto, solo per omaggiare un film che ci ha colpito nel profondo. E allora certo, sì, c’è un dato meramente personale in tutto questo. Perché per un trentaseienne come il sottoscritto cresciuto divorando in VHS i film di Ray e Fuller, Kazan e Ozu, Coppola e Scorsese, Fassbinder e Reitz, e che ha trovato una casa in quel ponte sospeso tra il romanticismo tipicamente europeo e l’on the road filmato da ogni amico americano…beh, questo atto d’amore totalizzante verso il Cinema concepito ancora come possibile e tangibile dimensione per superare il dolore tornando alla vita, è apparso un film magnifico oltre ogni “distaccato” giudizio critico. Perché qui “l’indifferenza è solo apparente, gli automatismi nascondono molto amore. Wenders è a casa sua nel suo cinema”.

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