SPECIALE SILS MARIA – Eva in Maloja Snake: i fantasmi femminili di Assayas
La donna nel cinema di Assayas è un’entità che introduce il reale in un universo maschile impregnato di fantasmi. E che, paradosso supremo, resta tuttavia ella stessa un fantasma, inconoscibile, mutevole. Destinata a cambiare a seconda delle angolazioni, degli sguardi: come il serpente di nubi che si insinua tra le valli; come ogni attrice per il suo regista.
Grande direttore di attrici, Assayas inizia a comprendere durante le riprese del suo primo lungometraggio Desordre che le donne saranno il perno del suo cinema: “Mentre si realizza un film d’esordio si scopre anche cosa interessa davvero: io all’inizio non sapevo che mi sarebbe piaciuto filmare le donne, che c’era là qualcosa che rivelava perfino aspetti intimi. Fare un film è un salto nel vuoto”.
Trent’anni dopo eccolo tornare quindi sulle prime incerte riflessioni sul ruolo di metteur en scène, sul rapporto demiurgico tra regista e interprete, ripercorrendo gli stessi tortuosi sentieri della memoria della sua protagonista Juliette Binoche/Maria Enders, il cui esordio Maloja Snake diventa corrispettivo tanto di Desordre quanto del Rendez-vous di André Téchiné, set del fatale incontro con l’attrice.
Il cinema per Assayas continua a essere soprattutto una summa di esperienze, un soffio vitale in cui l’apparato teorico, pur evidente, trova sempre un fortissimo contrappeso emotivo. Sils Maria ne è forse l’esempio più fulgido, il punto più alto della riflessione malinconica di un autore continuamente sospeso tra un passato e un futuro, che trovano qui sostanza nei corpi di tre formidabili interpreti.
Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz sono le muse attraverso cui Assayas esplora nuovamente il suo vissuto: l’esordio nel post Nouvelle Vague e il rapporto sempre inquieto con la tradizione francese; l’anelito del classico che sopravvive nel mainstream contro l’indipendenza del girato veloce (l’amore per il 16mm) e, infine, la seduzione dei generi, delle cinematografie ‘altre’, dall’America all’Asia, irrinunciabile per un cineasta così apolide e cangiante, il cui credo, ribadito in Sils Maria, prevede che "il gusto, come il desiderio, si consuma".
Due grandi maestri della psiche femminile scelti come referenti per una nuova autobiografia, stavolta celata, in cui l’autore da un lato si sostituisce, si insinua nei corpi e nell’anima delle sue protagoniste, mentre dall’altro continua a osservarle dall’esterno, a inquadrarle, ad amarle.
Un amore quello di Assayas per il femminile che trova una perfetta esplicazione nelle parole di Jacques Chardonne, uno dei romanzieri post-proustiani della tradizione francese. Autore di un testo inseguito per anni da Assayas, Les destinées sentimentales, che quando viene finalmente trasposto in immagini acquista immediatamente il valore di spartiacque tra quello che fino ad allora il cinema assayasiano era stato e ciò che sarebbe diventato.
«Per sua natura l’uomo è astratto. È a suo agio nella metafisica e nell’assoluto. È fatto per produrre leggi, annunciare l’avvenire, creare dei paradisi; ma non ha coscienza dei propri gesti, non vede le forme e i colori, l’ambiente in cui si trova, le persone che incontra; vive tra fantasmi e le sue stesse sensazioni sono incerte, perché vengono in maggior parte dalla moda. Queste riflessioni volevano dire “Una donna da amare e con cui dividere la propria casa introduce il reale nell’esistenza. Pauline si impone ai miei occhi come un’individualità indipendente che non posso ignorare. Mi ha rivelato la complessità della vita.
Egli vede sempre in Pauline, come per trasparenza, la giovane fanciulla di Barbazac, che custodiva nel suo cuore e non osava guardare, l’immagine proscritta, per sempre dentro di lui, emozionante e graziosa. Tuttavia, quella che chiama Pauline gli sembra oggi ben diversa da questa prima visione che resta al contempo ingannatrice e vera, vaga, smentita e persistente. Egli non ha previsto questa Pauline attuale, un po’ silenziosa, a volte inquieta. Ma i nuovi tratti non formano un essere preciso, cambiano seguendo le illuminazioni interiori e compongono la realtà indeterminata, la perpetua creazione della vita e dell’amore.
E, sulla strada, mentre torna verso casa, verso l’istante prossimo così necessario, verso la donna che desidera sempre rivedere, si accorge di questa fretta e ammira l’obiettivo limitato, fragile, mai raggiunto, l’audacia dell’uomo che ha reso suo idolo una creatura imperfetta» (J. Chardonne, Les destinées sentimentales).
Questo stralcio chardonniano sembra contenere integralmente il ruolo della presenza femminile nel cinema di Assayas: la donna come un’entità che introduce il reale in un universo maschile impregnato di fantasmi. E che, paradosso supremo, resta tuttavia ella stessa un fantasma, inconoscibile, mutevole, impalpabile.
Proprio come la matriarca di L'heure d'été e le tre grandi presenze-assenze del penultimo Après Mai, Leslie, Christine, Laure, quest’ultima vero e proprio revenant bergmaniano, immagine ritornante e ossessionante da cui è impossibile liberarsi e che tende la sua mano per ricondurre alla realtà dello schermo il protagonista/spettatore.
Donna anche come “realtà indeterminata” destinata a cambiare a seconda delle angolazioni, degli sguardi: come il serpente di nubi che si insinua tra le valli; come ogni attrice per il suo regista.
In tal senso Assayas va anche oltre l’esperienza bergmaniana di Persona, così rigida e controllata, sempre sui volti delle sue icone speculari Liv Ullmann e Bibi Andersson, programmaticamente doppie, per avvicinarsi invece al Bergman più luminoso e libero di Monica e il desiderio (primo colpevole amore del cinema francese, vero, Antoine Doinel?) a cui sembra ispirarsi nel riprendere la fusione panica dei corpi femminili nel paesaggio, soprattutto nella liberazione improvvisa del bagno nel lago, nuovamente teatro di rivelazioni (la nudità integrale di Maria Enders) e reticenze (lo slip coprente della sfuggente Val).
E se Persona in qualche modo era presente già nel quarto film dell’autore, Une nouvelle vie, nel legame ambiguo e irresistibile tra le due sorellastre Sophie Aubry e Juditte Godrèche, il ritorno su questo stesso tema a tanti anni di distanza, e il suo superamento, illumina sulla maggiore lievità del cinema assayasiano della maturità. Un cinema che pare aver trovato un equilibrio perfetto tra eleganza della forma e inquietudine della sostanza.