SPECIALE STAND BY ME – Racconto d’estate, di Eric Rohmer
Un titolo che era come una promessa. Una folgorazione estiva che segna l’incontro con l’universo rohmeriano, divenuto molti anni dopo un viaggio alla ricerca di quei luoghi e di quelle stesse immagini
Ci sono film che ti cambiano la vita, impercettibilmente, senza che te ne accorga. Altri che semplicemente ti restano accanto, come quegli amici che avevi a dodici anni e che la vita non ti regalerà mai più, ma a cui tornare col solo pensiero è già un sollievo.
È il senso dell’ondata travolgente di nostalgia che ha sommerso, in queste settimane, chiunque si sia accostato al piccolo cult di Netflix, Stranger Things, che agisce con precisione chirurgica, ma anche un gran cuore, sulle visioni dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui attraverso un gioco di specchi, di immagini ritornanti, recuperiamo un vissuto privato, lo stupore e il desiderio d’avventura di un’età in cui reale e immaginario si confondono.
E non servono binari da attraversare, misteri da risolvere o tesori da scovare, a volte basta un paesaggio, una storia raccontata con cristallina semplicità a far breccia nel cuore senza uscirne più, tanto da diventare una sorta di guida estetica alla stessa realtà.
Il mio “stand by me” è stato un film francese, trasmesso in una notte estiva, afosa come quelle di questi giorni, con un titolo che era come una promessa: Racconto d’estate. Ho sempre amato i film o i libri che denunciano apertamente la loro consapevolezza affabulatoria, così come tutto quello che rappresenta la giovinezza: per me tutto il cinema dovrebbe parlare solo d’adolescenza, di quel momento di scoperta così sfuggente, inafferrabile, che pare una metonimia del tentativo di afferrare il tempo.
Ricordo come fosse ora l’approdo in una località balneare allora sconosciuta di questo ragazzo affascinante, timido e silenzioso (Melvil Poupaud, che sarebbe tornato su quelle stesse spiagge nel finale de Il tempo che resta…). La discesa dal battello, l’arrivo in una casa dalle scale di legno, le sue sortite solitarie in esplorazione della vita vacanziera, la sua solitudine in mezzo alla folla.
A sorprendermi – quasi sconcertarmi – di quell’incipit fu il silenzio. Un silenzio imperfetto, però, pieno di rumori reali, capace di restituire i suoni del mondo col calore di un vinile, non appena la puntina inizia a girare.
E poi dall’incontro con la dolce Margot – quell’Amanda Langlet che avrei ritrovato, come in un viaggio a ritroso nel tempo, appena adolescente in un altro Rohmer “balneare”, Pauline à la plage, altro film del cuore, di romanzi di formazione in riva al mare – il film inizia a esplorare triangolazioni sentimentali, con infinite sequenze di parole e non detti, di gesti impercettibili e sottotesti orchestrati con grazia innata, come un giro di valzer.
Quasi in chiusura dei suoi “Racconti delle Quattro stagioni”, Rohmer fa in realtà di questo squarcio d’estate un’ideale prosecuzione di alcune fra le opere più ispirate del ciclo “Commedie e proverbi”: la già citata Pauline, Il raggio verde, Le notti della luna piena e L’amico della mia amica. E se da questi ultimi recupera un’idea circolare dei sentimenti, del primo ritrova l’ambientazione, spostandosi appena, dalle spiagge normanne a quelle bretoni della tradizione marinara, che dona al film un carattere bizzarro, se accostato alle vicende amorose di studenti ventenni, e magico allo stesso tempo, con richiami alle canzoni dei pirati e ai racconti di Jules Verne, già nume tutelare del Raggio verde.
Conte d’été fu il mio primo Rohmer e l’imprinting per un autore che negli anni non solo ha rappresentato un’idea di cinema – “netta e precisa come un gesto”, come direbbe l’Yves Saint Laurent di Bertrand Bonello – ma ha da subito valicato i confini dello schermo: come se, nel sottosopra, nell’upside-down dei Duffer Twins, non ci fossero mostri alieni ma piuttosto il suo universo delicato, dai tratti impressionisti.
È sulla scia delle immagini rohmeriane, sul loro potere evocativo, che Racconto d’estate è diventato, molti anni dopo, il leitmotiv di un viaggio attraverso Normandia e Bretagna, in cui ogni tratto del paesaggio, ogni maglia a righe indossata, ha rinviato alle visioni che mi hanno accompagnato per anni: i bastioni di Saint Malo, le maree, le tende a righe sulla spiaggia di Dinard, e l’emozione profonda, pungente, di trovarsi finalmente lì dove la stessa immagine era nata. L’isola di Ouessant, luogo dell’appuntamento mancato di Gaspard e Margot, resta perciò il limite invalicabile anche nel mondo reale: non appartenendo al cinema, rimane uno spazio inviolato, sacro. Il punto all’orizzonte verso cui continuare a indirizzare lo sguardo.