SPECIALE STAND BY ME – Sixteen candles, di John Hughes

L’adolescenza è un valore assoluto. Nel bene e nel male si prova (e “ti” prova) senza pelle, mentre il mondo intero trattiene il respiro. Non può accaderti nulla di più bello. Né di peggiore.

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Mentre guardavo per la prima volta Sam Baker (Molly Ringwald) compiere i suoi sedici anni nell’indifferenza generale, io ne avevo quattordici. La pellicola di John Hughes (Sixteen Candles, 1984) già dieci. Lo ricordo benissimo quel pomeriggio torrido, uguale a tanti altri in cui, dopo pranzo, mi concedevo due ore di divano nella penombra della serranda socchiusa. Mi abbandonavo alla piacevole sensazione di non dover consegnare compiti il giorno successivo, piccola trasgressione, pagata accumulando gli sforzi a ridosso della ripresa delle lezioni (abitudine mai più rimossa… nemmeno oggi che lavoro fra le scadenze). Armata di gelato (perennemente) ero pronta a vestire i panni di Sam, a condividerne i disagi attraverso la lente deformante della mia adolescenza, in quella piccola catarsi scaramantica che mi lasciava pensare/sperare che mi attendesse lo stesso lieto fine. In fondo i capelli rossi e la pelle chiara di Sam potevano ben confondersi con una rotondità, la mia, che all’epoca mi appariva così mal collocata (e se avessi saputo che ciò che ho perso non si sarebbe mai più adagiato sui “punti giusti”!) e da nascondere sotto il “cappello” degli abiti neri; anch’io “tenevo in mano” i mei libri, quelli che a quattordici anni interessano pochi o comunque non quelli che interessano te prima che il contrappasso del tempo li trasformi nei “Fabris” della situazione, il che, accade quasi sempre. L’adolescenza è un valore assoluto. Nel bene e nel male si prova (e “ti” prova) senza pelle, mentre il mondo intero trattiene il respiro. Non può accaderti nulla di più bello. Né di peggiore. Perno invisibile dell’universo non puoi essere dimenticata nel giorno del tuo compleanno. E se ciò accade perché tua sorella si sposa, beh, te lo sei proprio meritato quel maledetto premio di vittima dell’anno. Io lo vinsi già all’età di tre anni in verità, quando, bellamente, i miei mi portarono all’asilo mentre a casa arrivavano le gemelle nuove di zecca. Mi fu subito chiaro che l’operazione era la stessa che più avanti avrei visto reclamizzare da una nota casa di detersivi. A quattordici anni non era cambiato poi molto. Se mi fermo ad ascoltarmi me la sento ancora addosso quell’inquietudine (My emotion wandering, yeah – Do not want a part of this anymore – The rain water drips – Through a crack in the ceiling – And I’ll have to spend – My time on repair – But just like the rain – I’ll be always falling, yeah – Only to rise and fall again, cantavano I Thompson Twins in If You Were Here, colonna sonora del film). L’odiosa sensazione d’esser fuori posto senza tuttavia capire quale fosse il mio posto e quell’inadeguatezza che “i grandi” sembravano aver dimenticato ma che Hughes, al suo debutto dietro la macchina da presa, sintetizza così bene (e non ci deluderà più!) nell’incontro di Sam con i propri nonni: “Che splendore! Farai impazzire tutti i ragazzi!”, mentre la personale verità alla quale Sam non può fare a meno di credere è di non essere notata affatto, così lontana, come appare a se stessa, dallo stereotipo che Caroline, la fidanzata di Jake Ryan (Michael Schoeffling) di cui è segretamente innamorata, rappresenta; “Non mi trovate un pochino più grande?” “No no, non mi pare” è la risposta sbagliata di chi guarda indietro prima che avanti. Del resto quel mood non se n’è andato da troppo tempo; si è diluito negli anni finché mi sono sorpresa adulta. Ed è un sollievo. E un vero peccato.

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