SPECIALE "THE DREAMERS" -Ricomposizione di un sogno: lo splendido paradosso

Quale presa di coscienza hanno i tre alla fine del percorso? Non si sanno confrontare sul cinema, sulla politica, su nulla… La facilità della citazione da Cahiers è direttamente proporzionale alla volontà di aderire a quei mondi sfiorati, sognati. Ma è lontana l'autenticità dell'amore per un'arte nata plebea, povera ed emarginata.

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 E' molto più italiano di quanto non voglia far credere a sé stesso il cinema ma presumibilmente anche l'uomo-Bertolucci. Nonostante le sue coriacee, reiterate dichiarazioni di appartenenza/riferimento/omaggio a questo o a quel filone artistico, in primis alla nouvelle vague. Solo questo strambo/contraddittorio/unico paese dove il genio di Rossellini ha saputo attraversare con la medesima autorità fascismo, resistenza, dopoguerra e potere democristiano poteva generare una siffatta rievocazione, più o meno onirico/mitica/materica, delle speranze ideologiche/non ideali e della loro messa in impegno. Lo splendido paradosso è che sia proprio lui a nutrire nostalgia per i sogni di cambiamento di quei giovani contrapponendoli al vuoto pneumatico della generazione odierna. Proprio lui che, disgustato dall'Italia craxiana, preferì l'espatrio volontario ad una qualsiasi "operina morale", che magari non sarebbe servita ad alcunchè ma avrebbe smosso comunque le acque stagnanti (in ciò è riuscito nell'intento di distinguersi da Pasolini, come desiderava girando La commare secca). Forse la sua visione rivoluzionaria è troppo deflagrante ed immediata come la discesa in piazza dei protagonisti e meno legata alla lotta quotidiana, giorno per giorno, millimetro dopo millimetro. Sarebbero bastati gli eccessi sessuali di quei ragazzi a scardinare l'istituzione familiare e ad ottenere storiche conquiste civili (divorzio, nuovo diritto di famiglia, aborto) se non ci fosse stato uno sparuto e determinato gruppo di nonviolenti e libertari (che infranse l'unanimismo del '68, ma in pochi ancora se ne sono resi conto)? La violenza, fantasma emergente qua e là nel film fino ad eccedersi nel ralenti della carica della celere, che nella sua lenta uscita dal quadro cinematografico vuole rappresentare la fine rovinosa di un sogno già interrotto (il suicidio mancato col gas che dà il la ad un'uscita dall'ir/ reale, nello stile meccanico del Moro libero di Buongiorno, notte).

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Bertolucci ne avverte il fascino e la debolezza allo stesso tempo. Così da una parte infila tramite il personaggio dell'americano frasi di condanna largamente condivisibili. Su questo tasto avrebbe dovuto insistere di più anzichè fingere di evitare scandali impossibili per poi ritornarci inesorabilmente: quale altro scandalo ("partito dei vescovi" a parte, ma quello è un classico gioco delle fazioni all'italiana) è ormai possibile se non quello della ragionevolezza? Quale presa di coscienza hanno i tre alla fine del percorso? Non si sanno confrontare sul cinema, sulla politica, su nulla… D'altro canto l'impeto delle incursioni corporee ha il merito di valutare la presa di possesso della propria entità carnale e delle sue combinazioni esterne, frutto di decisioni autonome, anche ludiche (e questo nel mondo occidentale è ancora realmente rivoluzionario).
   La mitologia del '68 borghese viene esaltata ancora dalla cinefilia, conosciuta, vissuta dal regista, dalla Cinematheque, dagli scontri per la rimozione di Henri Langlois dove Bertolucci innesta immagini di repertorio ad altre ricostruite con un Jean-Pierre Leaud ossequiato in un'alternanza fiction-documentario (richiamandosi fortemente al cineasta Tom di Ultimo tango a Parigi, film cui The dreamers è forzatamente accostabile, anche per lo spiccato citazionismo). E' l'unico stimolo vitale di un contrappunto di sequenze (e di musiche: Hendrix, Joplin, Dylan, Doors, Hardy, Ferrer…) dal forte sapore universitario ed autoriale. Mouchette, Scarface, Bande a part, Von Sternberg, Chaplin, Keaton… la facilità della citazione da Cahiers è ancora direttamente proporzionale alla volontà di aderire a quei mondi sfiorati, sognati. Ma è lontana l'autenticità dell'amore per un'arte nata plebea, povera ed emarginata. La duplicazione dei gesti 
di sequenze "mangiate" sullo schermo ha valore zero. Il cinema è già di per sé ripetizione. Il corto circuito formale è così dietro l'angolo della casa-set attraversata da uno sguardo sempre fluido. Non così calibrato come i due precedenti film dell'esordiente Bertolucci (così voleva farsi considerare per Io ballo da sola) avevano fatto apprezzare.

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