SPECIALE "The New World" – La sposa occidentale

Il film lavora esattamente come un ciclo rigenerante di nascita e morte. Attraverso i percorsi dolorosi di perdita e di riconoscimento del possibile altro. In tal senso poteva essere un'opera epocale.

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E' un film che "parla" fin troppo l'ultimo di Terrence Malick. Non è (solo) una questione di salmodi off che altrove funzionavano in maniera sublime o di doppiaggio, anche se l'uniformità linguistica rende ancora più abissale il divario tra lògos e phone', rinunciando ad una splendida rincorsa tra significante e significato. Anche da un punto di vista squisitamente visivo. E parla apertamente di tutto ciò che dovremmo "avvertire" sensorialmente e che magari si sedimenta in noi solo ad uno stadio razionale proprio perché bloccato da un "io" narrante che tende a sovrastarci ed inibirci. Tante, troppe volte ci dividiamo anche banalmente e noi stessi ci contraddiciamo sulla natura e sul valore da attribuire ad un singolo film. Se parlare delle tesi incollate sul fotogramma (tra cui lo score wagneriano in overload), tutte quelle riferibili a sovrastrutture altre, o di un sentire che rimandi ad altro ancora. Così dopo il florilegio emozionale dell'ultimo speciale di Sentieri Selvaggi, siamo come incantati all'idea di aver potuto resistere a questi assalti. Malick da sempre realizza film che vogliono rimanere fuori dal tempo. Ma non nel senso "sepolcrale" di opere da consegnare alla memoria. I suoi film hanno questa tensione autonoma di svincolamento da canoni, tendenze, stilemi riconoscibili. Rispetto al presente e al passato. E' anche questo aspetto che rende deflagranti le tre opere precedenti. L'anti-retorica di un noir fatalmente precipitato nell'assurdo. L'epica sospesa e tragica di spazi ancora sconfinati. Lo sperimentalismo esistenziale riferito ad un mondo sommerso e irrapresentabile. Proprio la qualità cercata e mancata in The New world dove i link sono come implosi, confinati ad un'immanenza fraintesa. Malick si affida ad un accumulo di scene viste con uno sguardo che si vuole primigenio. Ma proprio il disinteresse ad eventuali mondi cinematografici pregressi disinnesca i luoghi originali della storia. Diventano non-luoghi qualsiasi. Tutto dovrebbe venir da sé. L'amore, la morte, la natura, la civiltà restano archetipi che non interagiscono in profondità e non trovano nei terminali umani la scintilla della vita. Ideogrammi fin troppo reali che la scelta "storicistica" di Malick penalizza ulteriormente. Le ellissi che altrove erano ferite sofferte inferte allo spazio e al tempo lavorano troppo alla confezione drammaturgia in chiave chiusa, storica di una vicenda che trova il suo fascino proprio per la sua ambiguità destinata alla leggenda. Nel non sapere fino in fondo la verità sugli accadimenti, sui sentimenti. Un'ambiguità che eccede nell'immaginario proprio nel viaggio in Inghilterra dove la contaminazione trova il suo climax ed è lì che Malick riesce a rendere al meglio, forse perché libero dall'infatuazione panteistica per la foresta del Nuovo Mondo. Non è un caso, credo, che nel web non ci siano quasi per nulla foto dell'ultima parte del film. C'era un'immagine che trovavamo emblematica ed era quella della rincorsa nel giardino inglese tra Pocahontas ed il figlioletto. Mirabile contrasto tra Natura e Civiltà dove l'intervento dell'uomo (vedi gli alberi potati con geometrica precisione) riesce ad esaltare la liberazione di un'anima,  ormai riappacificata e pronta a morire in quella sala che per un milionesimo di secondo ricorda la sala dove viene rappresentata la morte nel finale di 2001 odissea nello spazio. Il film lavora esattamente come un ciclo rigenerante di nascita (la scoperta del mondo, nuovo) e morte (che dà origine ad un'altra vita). Attraverso i percorsi dolorosi di perdita (di sé e dell'altro) e di riconoscimento del possibile altro (da qui il matrimonio come immagine). In tal senso poteva essere un'opera epocale. Se non lo è diventata, è per quel soffio che separa nella vita dei grandi avventurieri il sublime dal ridicolo, il trionfo dal fallimento, la vita dalla morte. Tra Conrad e Rousseau, Kubrick e Lucio Battisti. Questo nascondersi di Malick, questo negarsi al mondo, oltre ad essere vuoi o non vuoi anche una mirabile strategia di marketing è come una strategia di protezione di un figlio, il film che si vuole amare in modo totale. Ma se Kubrick (che non a caso fallì sul progetto più amato, il Napoleone che non riuscì mai a realizzare) era ossessionato dall'idea del controllo dei materiali e doveva organizzare e difendere le proprie scelte perché potessero funzionare appieno, Malick non è interessato a segnare il proprio tempo ma proprio dal tempo vuole essere liberato per esprimere l'indicibile. Come il Battisti degli ultimi anni (per intenderci da E già in poi) che riuscì tramite la negazione dell'Io Battisti, con tutto l'armamentario annesso, a produrre album memorabile e ancora da rivalutare appieno dove la fuga, ora ironica ora tragica, dal senso riusciva a rendere la necessità di un rapporto con l'Assoluto. Speculare al suo mondo passato, fatto di entusiasmi, passioni, ricerca di un rapporto puro e gioioso con madre Natura. Sì, siamo impazziti anche noi. Questo film avrebbe dovuto dirigerlo Lucio battisti.    

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