SPECIALE "The New World": "Per un cinema del "mancato"

Alea e senso, natura e cultura si contendono il fotogramma di Terrence Malick, latore di uno sguardo che non intende scegliere tra le due, che anche nel picco di un climax non resiste all'attrazione esercitata dal volo di un uccello o dai disegni impressi dal vento su un tronco d'albero.

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Un uomo contro l'altro, divisi da tutto: abiti, armi, colori, tecniche di combattimento. Non ne scorgiamo il volto: uno dà le spalle alla camera, l'altro è protetto da una pesante armatura. Non due personaggi, quindi, ma due vettori, due forze in rotta di collisione. Un alieno contro un predatore: ecco riassunti in una formula centodieci anni di storia del cinema. Ogni film è una guerra dei mondi. Ma qui c'è dell'altro. Una miriade di schizzi d'acqua si alza dal suolo, eccitata dalla lotta, e colpendo indifferentemente alieno e predatore. Come codificato da mezzo secolo di pittura informale, la materia liquida impazzita, libera dalla forza di gravità, è metafora privilegiata dell'alea, dell'imprevedibilità, di quanto non è pianificabile dalla volontà creatrice. Di ciò che non conosce direzione, vettorialità, senso: la seconda anima del cinema. Alea e senso, natura e cultura si contendono il fotogramma  di Terrence Malick, latore di uno sguardo che non intende scegliere tra le due, che anche nel picco di un climax non resiste all'attrazione esercitata dal volo di un uccello o dai disegni impressi dal vento su un tronco d'albero. Lasciarsi distrarre dal sentiero tracciato. Chiedere alla natura di mostrare (e non dimostrare) la sua necessità, di svelarsi (svelamento, aletheia, è un concetto greco e poi heideggeriano che Malick conosce bene). Guardare oltre. Quell'oltre continuamente scrutato al di là del fiume, ma mai raggiunto, da John Smith; l'oltre solo immaginato dai coloni inglesi, che continueranno a dibattersi nella melma in cerca della chiave d'accesso all'Eden. Ecco, il nuovo mondo non è un luogo fisico contrapposto a un altro: abita invece quell'oltre perpetuo, quel tendere a una frontiera senza mai raggiungerla: è nel non fermarsi mai. Immaginate i coloni intraprendere la via della conquista, attraversare il Midwest, battere la route 66 fino alla costa ovest, e lì non fermarsi, proseguire nel Pacifico (ci hanno provato, in realtà, ad annettersi le Filippine) per poi, alla fine, ritrovarsi a casa. Ecco il nuovo mondo di Malick: un mondo in cui ogni conquista è definitiva quanto un battito d'ali (l'avevano capito gli àuguri). Cinema dell'utopia solo in apparenza, quello di Malick è proprio l'opposto: un cinema del "mancato", nel senso che fotografa il possibile un istante prima che la necessità pronunci la sua sentenza definitiva, prima che operi una scrematura tra ciò che avviene qui (la storia) e ciò che avviene in un imprecisato altrove (utopia, appunto). Il regista misura la distanza tra questi due mondi, tra due badlands e tra due sguardi, fregandosene di sapere chi ha vinto e chi ha perso. Per lui contano gli schizzi d'acqua sollevati dai combattenti. Se non altro, a differenza di un qualsiasi trattato di pace, non si possono infrangere.   

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