SPECIALE THE WALK – Amore supremo

E’ il linguaggio la conquista che l’uomo può raggiungere con una torre fino al Paradiso. Zemeckis tenta di instaurare un linguaggio che funzioni in maniera universale, condivisa, a tutte le distanze

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If we see William Blake in a vision but William Blake doesn’t see us, that’s a fiction. But if William Blake sees us in return, that is either a natural or eschatological situation. (Allen Grossman, Summa Lyrica – alla base di Orphic Machine, il capolavoro di Ben Goldberg)

L’irresistibile colonna sonora swingante di Alan Silvestri per The Walk, e il suo alternarsi con brani in cui piano, tastiere e archi si fanno decisamente più ambient, chiarisce la lettura dal punto di vista ascensionale del grande film di Zemeckis.
L’elevazione e la sospensione sono d’altra parte da sempre concetti-chiave nel linguaggio del jazz, Coltrane forse prima di tutti, ma non solo: Words, sounds, speech, men, memory, throughts, fears and emotions–time–all related…all made from one… all made in one, recitano le liner notes di A love supreme.
Qual è allora quell’amore supremo e divino che si può raggiungere solo salendo nell’alto dei cieli, a fermarsi su quel punto preciso in cui tutte le traiettorie si incrociano e si toccano in aria?

“Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”, dicono gli uomini che parlavano tutti la stessa lingua, nel libro della Genesi. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. (Genesi: 11,1-9). E’ il linguaggio, la conquista che l’uomo può raggiungere costruendo una torre (una scala…) che possa salire al Paradiso. Il film di Zemeckis procede infatti, occhi al cielo, proprio per lucidissimi tentativi di instaurare un linguaggio che possa funzionare in maniera universale, condivisa, e soprattutto a tutte le distanze (i’ll know her face a mile away, i’ll know her face a mile away), come dimostrano i folli escamotage per capirsi da una torre all’altra che Petit e i suoi complici mettono in atto con tutto il linguaggio del corpo, con Petit che ad un certo punto si toglie tutti gli abiti di dosso pur di trovare il filo invisibile.

Il punto cruciale sembra proprio essere quello di farsi capire: dentro al cerchio che il funambolo The-Walk-soundtrack-Alan-Silvestri

disegna per terra sono vietate le parole, ma in quella piazzetta dove si esibisce con la sua chitarra, Annie riesce subito ad instaurare un dialogo di cenni e gesti con il ragazzo di cui si innamorerà, prima a distanza e poi entrando proprio in quel cerchio magico attraverso il linguaggio della maschera, del mimo.
Aldilà della funzionalità interna alle ambizioni internazionali del progetto, la convenzione esplicitata sull’utilizzo dell’inglese come lingua condivisa tra i personaggi esprime insieme il tratto apolide della storia in questa New York centro-dell’immaginario-mondiale (su cui con grande puntualità si sofferma Davide Di Giorgio) e la tensione verso la costruzione di un idioma comune, comprensibile a tutti.
Si chiede mai se la lingua che parla ora interferisca con i suoi pensieri? Può la lingua delle origini influenzare i propri pensieri?, domanda ad un certo punto Ornette Coleman a Jacques Derrida (vedi Sentieri Selvaggi Magazine, n.18). E il filosofo: “È un enigma per me. Non posso saperlo. So che qualcosa parla attraverso di me, un linguaggio che non comprendo, che a volte traduco più o meno facilmente… Questa è da sempre una condanna: conosciamo noi stessi in base a quello in cui crediamo. E’ un concetto universale: conosciamo o siamo convinti di sapere quello che siamo attraverso le storie che ci vengono raccontate.”

La tecnologia come mezzo universale per l’abbattimento delle distanze (so why-y-y can’t i touch it?), nodo fondativo dell’intera poetica di Zemeckis attraverso i decenni come nota Pietro Masciullo (e che, a proposito di stereoscopia spielberghiana, avvicina tutta l’avventura tra le impalcature nascoste delle torri alle peripezie del Tin Tin del 2011, il quale non a caso rilanciava lo Zemeckis morphico…), giunge allora qui ad un nuovo traguardo fondamentale, ribadendo l’esistenza di una Babele innanzitutto mentale, interiore, a cui si accede alla fine della passeggiata – un amore supremo, certo, ovvero un’immagine che contiene e unisce tutto, dall’alto al basso e in tutte le lingue, le direzioni, i tempi. Into forever, che è l’ultima parola del film e il titolo del nuovo album, bellissimo, della Gondwana Orchestra che sarebbe stato perfetto per accompagnare le immagini di The Walk, se Zemeckis non avesse avuto Silvestri.

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