SPECIALE THE WALK – In scena non si mente

In scena non si mente. È questa la grande lezione etica del cinema di Robert Zemeckis: credere nel gesto (filmico) attraversando il sottile filo della nostra esperienza. Al-di-là dell’artificio.

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In scena non si mente” – Papà Rudy/Ben Kingsley a Philippe Petit/Joseph Gordon-Levitt

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Tu non sei reale, niente è reale qui!
Vedi… in tutte le nostre ricerche, la sola cosa che rende il vuoto sopportabile siamo noi stessi”.
Jodie Foster/Ellie e suo padre/extraterreste David Morse (Contact, 1997)

 

In scena non si mente. È questa, da sempre, la grande lezione etica del cinema di Robert Zemeckis che si rinnova qui nel suo film definitivo sul cinema-come-volo, sulla vertigine come smarrimento delle coordinate classiche (il re del postmoderno anni ’80 ritorna perennemente al suo Futuro), sullo sguardo-in-abisso dello spettatore come unico controcampo di un’istanza narrante posta testardamente alle porte del sogno (l’ultimo narratore Petit è addirittura sulla cima della Statua della Libertà, lì, alle porte immaginarie dell’american dream). The Walk, in fondo, è solo una passeggiata perché il cinema di Zemeckis nasce sempre da uno stesso sublime paradosso. Un complesso e sofisticatissimo artificio (ogni immagine deve essere l’ultima illusione proiettata al futuro) che serbi la meliesiana magia più pura e fugace (dalla piuma di Forrest al sottile filo di Petit), nell’eterno ritorno alle origini del cinema (il muto, il bianco e nero, il gesto coreografato, l’attrazione prima verso l’immagine-in-movimento) in un fertile cortocircuito tutto contemporaneo.

 

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Il green screen e la New York digitalizzata del film

Le verità nascoste. In tempi di galoppante smaterializzazione digitale dei corpi e di perdita di ogni residua traccia referenziale, Zemeckis ci racconta fiducioso di una verità dello sguardo che si smarchi dai supporti e baleni nelle origini sempre in divenire delle immagini. Origini ri(n)tracciate innanzitutto nello shock spettatoriale prodotto dalla Tecnica. Uno shock fine a se stesso come il gesto di Petit (o la cavalcata del War Horse di Spielberg) che attraversa sette volte il vuoto tra le due Torri perché “è condannato a stare su quel filo”. Zemeckis sa, l’ha sempre saputo, che alla domanda baziniana “che cosa è il cinema?” si risponde piegando ogni traguardo tecnico contingente e necessario (l’interazione con i cartoni di Roger Rabbit, poi con i fantasmi del passato di Forrest Gump, sino all’ultimo decennio della performance capture inaugurato da Polar Express) a un afflato umanista e spirituale (il crocevia finale di Cast Away non sopravvive nelle due rette incrociate nel volo di Petit?) che sfugga da un supporto sempre più “bugiardo” per rifugiarsi nell’occhio dello spettatore come unico baluardo di verità. Da questo punto di vista è un cinema intimamente politico quello di Zemeckis, esattamente come politico era l’I see You cameroniano.

 

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Gli occhi di Jodie Foster sono il “Contact” del film

Contatto, allora. Siamo di nuovo persi nell’occhio di Ellie in Contact, nel punto limite di quell’abisso di tracce mediali diventate l’unico tempo nello Spazio profondo (il meraviglioso incipit di quel film, una delle sequenze più lucide, teoriche e profetiche degli ultimi decenni) per ritrovare alla fine un padre nel pianeta più lontano. L’alieno-cinema che comunica con i nostri antichi suoni crea un’immagine “familiare” (il Novecento) e parla da un corpo-Avatar (l’oggi…) smarcandosi però da ogni dubbio ontologico proprio nell’emozione umana che colma ogni vuoto. Perché l’unica tangibile forma dell’anima a cui tendere “siamo noi” dice l’extraterreste/padre di Ellie. Ecco allora che anche Philippe Petit non può e non vuole ammettere i cavi di protezione per il suo gesto artistico definitivo: perché si deve aver fiducia nell’ignoto, essere disarmati e nudi di fronte all’abisso di percezioni che pur con molti artifici ci siamo creati.

 

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Flight, l’occhio di Denzel Washington

In volo, Flight. Credere nel gesto (filmico) è il cuore del cinema di Zemeckis. Papà Rudy insegna al giovane Petit come ringraziare sinceramente il suo pubblico, ma lui dapprima non lo ascolta: “io sono un artista, non sono un funambolo da circo!”. Ma poi arriva lassù, alle porte del Mito, e fa una cosa che nessun funambolo dovrebbe mai fare, “guardare giù”, accorgersi del proprio spettatore creando un flusso emotivo che eterni il gesto nello sguardo. The Walk si mantiene così in meraviglioso equilibrio tra il sogno (New) Hollywood e l’omaggio alle Torri come categoria immaginaria, camminando sul filo di quella sublime inutilità del cinema che ha “colorato” ogni grigio trauma novecentesco. Petit e la sua troupe di complici armati di archi, corde e carrucole, configurano il complesso dispositivo-cinema che produce quel semplice gesto “inutile”. Uno spettacolo-film espanso nella metropoli che risemantizza il luogo e gli dona una nuova geografia: “sai quante persone ora amano quelle due Torri? Forse gli hai regalato un’anima”. Talmente articolata e materica tutta la pre-produzione (un inserto così serrato da ricordare un heist movie) che subito dopo avviene il paradosso inaspettato: nell’atto estremo di pericolosità (si diventa funamboli, noi stessi, tirati dentro dal 3D più necessario del decennio), nell’atto estremo di vertigine e smarrimento delle coordinate di sguardo, avviene anche l’improvvisa liberazione e pacificazione. Il filo sottile da attraversare diventa la nostra esperienza al-di-là dell’artificio, che si lascia dietro tutta la pesantezza del set in un’estasi (digitale) che riempia il cuore di (analogiche) sopravvivenze. In scena non si mente.

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Robert Zemeckis e Philippe Petit sul set di The Walk

 

Ritorno al futuro: il cinema resta Tecnica (d)e(l) Sogno. Perché si possono solcare i confini del tempo insieme a Marty McFly, stringere la mano a JFK o John Lennon insieme a Forrest Gump, inseguire e abbracciare il cartoonesco Roger Rabbit o la sua Jessica, diventare lo spettro tridimensionale di un Polar Express o persino ri-edificare digitalmente le Torri Gemelle eternandole nell’immagine “per sempre”… insomma si può programmare ogni futuro, certo, ma si deve sempre credere a una verità nascosta del cinema. Verità estatica e sentimentale che è la vera “vita” di quelle immagini, quel qualcosa di indefinibile da (de)finire nei nostri occhi come originari campi del sentire. The Walk, infine. Papà Rudy guarda commosso il figlio Philippe e sa dire solo: “Io non capisco quello che stai facendo, so solo che… è qualcosa. È qualcosa”.

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