SPECIALE TODD PHILLIPS. Joker: Folie à Deux – La coscienza di Arthur
Più che la scissione identitaria tra Arthur Fleck e (un) Joker, a segnare la vita del protagonista è l’accumulo di disturbi psicologici e sociali. Azzardiamo un’analisi, tra cinema e accademia
“La nuova melanconia si disgiunge da quella freudiana a partire dal suo contenuto extra-morale. La centralità della colpa viene sostituita dalla centralità del peso della vita. Senza la spinta propulsiva del desiderio la vita tende infatti ad appassire, a ritirarsi da se stessa. Diventa un peso morto da trascinare. Ma non è un peso che lacera il soggetto. Piuttosto lo sprofonda, lo inabissa in un vuoto infinito, in una sensazione diffusa di insensatezza“. Pur con tutti i noti limiti, imputabili alla massificazione di concetti accademici e alla tumidezza del linguaggio, proprio nell’anno d’uscita del Joker, Massimo Recalcati in un suo testo forniva una delle tante formule psicologiche che possono benissimo attagliarsi al selvaggio dolore di Arthur Fleck, a quell’angoscia così straziante che nel frattempo colpiva con così tanto clamore empatico gli spettatori di tutto il mondo. Dopo un miliardo di dollari d’incassi, il successo critico e, oggi, il rovinoso “giro a vuoto” (qualunque cosa voglia dire questa presunta contestazione che va per la maggiore) che è stato Joker: Folie à Deux, vale la pena provare a scendere nei meandri della personalità del protagonista del dittico diretto da Todd Phillips. Il regista statunitense e i suoi collaboratori, pur restando all’interno del variopinto spettro di personalità che contraddistingue quasi tutti i suoi alias, lo allontanano dalla vendetta traumatica della versione burtoniana o dalla malvagia schizofrenia nolaniana per conficcarlo in quella marea di malessere senza scampo che contraddistingue il secondo decennio del millennio. La “malattia del secolo” scorso quindi, come è stata definita la depressione, in una forma ulteriormente gravata dalle ribollenti tensioni sociali che oggi covano sotto il tappeto lavico di qualunque ordinamento relazionale. Una minaccia continua di implosione individuale che Phillips intercetta mirabilmente e che, in una maniera nemmeno così sorprendente, porta alle stesse conclusioni di quella d’inizio novecento che faceva dire a Zeno Cosini nel suo diario che “la vita attuale è inquinata alle radici“. Ma se il protagonista del capolavoro sveviano era esponente di una borghesia piena d’ennui ancora nel pieno della sua ascesa mercantilista, nei due lungometraggi Fleck appare come uno dei tanti emarginati destinati sì ad essere dinamite ma in un senso completamente opposto rispetto a quello nietzschiano.
Arthur nel primo film è infatti uno dei tanti alienati di Gotham City: invisibile, malmenato perfino dai ragazzini e alla costante ricerca di sé attraverso l’emulazione, anche quando il modello è palesemente fuori scala – la stand-up comedy che non capisce e che non sa scrivere. Nel seguito, all’interno di quel microcosmo sociale che è sempre stato il carcere, non è più solo e sembra perfino che abbia trovato il suo traballante posto: mascotte (a fasi alterne, è vero, ma con sprazzi di umanità securitaria quasi insospettabili per un pluriomicida) dei secondini, idolo e simbolo di masse che lo idealizzano chiedendogli di personificare, ancora e sempre, la ribellione più violenta al sistema. È una maschera, un individuo che ha fatto del suo protettore, secondo il lessico dei cognitivisti, la via di fuga sociale per nascondere al mondo un trauma, ma è pur sempre qualcosa (“ora esisto e le persone hanno cominciato a notarlo“). Perché di fronte all’inanità dell’Io e alla destabilizzante polarizzazione capitalistica che è rappresentata dai Wayne di ogni universo – qui espunti, come se solo dopo cinque anni la società avesse abdicato all’incorporeità dell’1 per cento padrone del mondo e si contentasse di scoppi di violenza ed esplosioni parcellizzate come quella al processo del loro momentaneo leader -, al singolo non restasse altra scelta che la determinazione del fittizio Sè con cui recitare sul palcoscenico del mondo. Ma, come documentato da decenni di terapia accademica ed empirica, il trauma non adeguatamente trattato e seguito può causare la spirale di auto-sabotaggio a cui l’individuo va incontro. Nel 2019 Arthur perde infatti sia la possibilità di un sostegno psicologico sia il mantenimento della sua terapia farmacologica a causa di un taglio orizzontale dell’assistenza sociale che fa strame dei suoi assistiti più indigenti. La sospensione di entrambe le terapie è allora il trigger che fornisce la spinta decisiva al deterioramento dei suoi deliri e scompensa i suoi già presenti tratti di personalità antisociale e narcisistica. Ecco allora che il breakdown psicotico è (fin troppo) chiaramente delineato, ovvero l’aggressione in metropolitana dei tre ragazzotti che, nemmeno troppo a caso per i comportamentisti, lavorano per il padre mancato Thomas Wayne. Il secondo film, invece, gioca in maniera più interessante proprio sull’estenuante aspettativa della comparsa del nuovo crollo. Phillips qui va oltre il leggibile mind-game film del primo episodio e dirige un più astratto grandguignol psicologico: le uniche esplosioni di violenza, come per la stragrande maggioranza del pubblico jokeriano, avvengono nei sogni/incubi di un uomo che è rinchiuso dietro le sbarre del carcere e di un tribunale che penalmente può solo condannarlo – manca difatti tutta la componente suspense del legal thriller: sappiamo da subito che per lui può esserci solo la sedia elettrica.
L’agognata caduta psicologica (“Hey, Arthur, come ti senti oggi: pazzo o no?“), però, non avviene mai: il prigioniero Fleck “guarisce” da solo, dopo aver compreso attraverso le canzoni che ritmano i suoi disturbi – e che sostituiscono il diario del primo film – che “non c’è nessun Joker, ci sono io“. Era stata proprio Lee Quinzel a rendere maggiormente esplicita la correlazione tra la dilagante insalubrità mentale collettiva e l’accidentale innalzamento mediatico di una delle tanti solitudini al calduccio del conformismo: “Tutto quello che avevamo era la fantasia e tu ci hai rinunciato“. Proprio a proposito della tanto vituperata compagna interpretata da Lady Gaga, anche qui c’è da sottolineare un altro interessante ribaltamento dei codici fumettistici e cinematografici: in Joker: Folie a duex è Lee a manipolare in maniera tossica Arthur con bugie continue, promesse non mantenute (“costruiremo una montagna“) e i tentativi di incipriargli il viso e l’anima per farlo ripiombare nei panni del Joker. Una maschera che, tutto sommato, Arthur ha tenuto soltanto nel periodo più oscuro della sua vita e che, con un trattamento adeguato, sembra suggerire Phillips nel pietistico finale del secondo film, singolarmente avrebbe anche potuto superare. Un’altra delle riuscite intuizioni del regista statunitense è infatti quella di fare una denuncia circonstanziata delle circostanze che portano il singolo a rompere il patto sociale, mostrando già dal sottovalutato prologo animato di Folie à Deux come l’apparato repressivo (i poliziotti del cartone) arrivino a manganellare Joker proprio quando aveva fatto pace con la sua ombra. Pur essendo un soggetto frammentato e deprivato a livello affettivo, emotivo, sociale ed economico, Arthur Fleck prova infatti continuamente a superare la propria indole schizoide-allucinatoria ma è continuamente sabotato dalla relazione simbiotiche che intraprende: sia con le donne (sua madre e Sophie nel 2019, Lee e l’avvocatessa Maryanne Stewart nel 2024), sia con gli uomini (Thomas Wayne, Murray Franklin e Randall nel 2019, la guardia carceraria Sullivan nel 2024). In questa veloce e non esaustiva panoramica sulla storia clinica di un personaggio spartiacque per la cinematografia di questi ultimi anni, vogliamo concludere con uno spunto che arriva dal Journal of Psychoanalytic Psychology: Arthur Fleck è, secondo questa associazione di psicologi statunitensi, nient’altro che un’intensa rappresentazione del narcisismo maligno. Una riduzione, però, che elide una caratterizzazione del personaggio molto più estesa e che ha il vantaggio/svantaggio di avvicinarla ad un altro grande patologico megalomane transmediale, ovvero il Patrick Bateman di American Psycho. Con tutti i limiti di un accostamento affascinante dal punto di vista critico ma improponibile a livello scientifico, potremmo concludere che Arthur Fleck è l’american psycho sub-proletario di quest’epoca, un working-class hero da cavalcare solo quando accoltella a casaccio altri derelitti come lui e, spiace constatarlo, da scaricare perfino spettatorialmente quando mostra una storia psicologica più complessa di un meme o di un reel. La “noiosa” escursione negli anfratti legali/musicali della sua mente non può soddisfare chi chiede alla malattia di essere solo seducente, come quella di uno parossistico serial killer yuppie o di un “monster” metodicamente adattato al fascino true crime delle piattaforme. D’altronde, come aveva constatato malinconicamente lo stesso Arthur Fleck: “L’aspetto più buffo dell’avere una patologia mentale è che tutti pretendono che ti comporti come se non ce l’avessi”