Spider-Man: Across the Spider-Verse, di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Abbracciare l’anomalia: forse siamo davvero sulla Terra sbagliata, c’è stato un errore quando abbiamo calcolato la meta. Ecco perché un cartone è il cinecomic più adulto che vediamo da anni

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“Ci sono buchi nel mezzo delle cose”, scriveva Stephen King tanto tempo fa ne La scorciatoia della signora Todd. “Proprio nel bel mezzo delle cose, non a destra o a sinistra, alla periferia, dove uno non ci farebbe gran caso. Se ne stanno piantati lì nel mezzo e uno ci gira intorno senza capirci niente. Poi te ne dimentichi”. Il nuovo capitolo delle avventure animate di Miles Morales è ambientato esattamente nel mezzo di un buco delle cose (lo è anche proprio come capitolo centrale di una trilogia che si concluderà l’anno prossimo con Beyond the Spider-Verse), e non è davvero tanto questione di multiversi, realtà alternative, incastri e connessioni, stavolta: ma di vuoti lasciati nella ragnatela delle vite, dei sentimenti, delle tavolate di famiglia, delle foto di gruppo. È davvero arrivato il momento di ragionare sul serio di Phil Lord e Chris Miller (qui firma dello script insieme a David Callahan) come grandi autori mélo, perché lo scarto operato tra questo episodio e il capostipite Un nuovo universo va esattamente in quella direzione, un po’ come faceva il secondo, abbacinante Spider-Man di Raimi sul primo.
Across the Spider-Verse è innanzitutto una straordinaria, umanissima galleria di genitori fragili e confusi, adolescenti impreparati al mondo (o ai mondi), eroi che non riescono a sostenere il peso del loro compito (Miguel O’Hara che deve tenere insieme il “canone” di tutti gli Spider-Man del ragnoverso ha forse più o meno responsabilità dell’esistenza quotidiana del padre di Gwen Stacy?). Anche il “cattivo generico” Spot non ha bene idea di come gestire i vuoti con cui deve avere a che fare, nessuno lo prende sul serio all’inizio, non sembra davvero in grado di controllare la sua capacità di “bucare” la realtà: e tutto il film pare costruito intorno alla medesima azione creatrice di procurare intorno a noi quello che la Gestalt chiama il vuoto fertile, dentro il quale vorticano le mille suggestioni visive dell’opera, sorta di viaggio multimediale nella storia dell’illustrazione del Novecento, e non solo (e che infatti prende il via scompaginando le opere esposte al Guggenheim…).

Se il primo film conserva l’importanza fondamentale di aver riportato il concetto di multiverso alle origini profondamente connesse con il pensiero afrofuturista (ne abbiamo parlato qui) di cerchio della vita e multidimensionalità, questo secondo exploit manda letteralmente in ebollizione le possibilità visuali di un’animazione liberissima, che cambia stile e tecnica a seconda delle linee narrative, delle sequenze, degli innesti, dei pianeti visitati (dove si evolve l’asset geopolitico delle dominazioni possibili, la San Fransokyo di Big Hero 6 è ora diventata una Mumbhattan). Dalla resa “acquerellata” dei frammenti su Gwen alle vignette esplose in omaggio ai comics, dal tratto bidimensionale della Macchia alla glitch-art pura, fino al fulmineo omaggio alla dimensione Lego di Lord & Miller. Perché certo, poi Across the Spider-Verse è pieno anche di tutti i riferimenti che fanno impazzire il target di questi prodotti, dalla celebre GIF con gli Spider-Man che si indicano l’un l’altro al videogame PlayStation di Miles Morales (“siamo saliti di livello”), con dentro una quantità esponenziale di rimandi alla mitologia costruita dai fumetti di Stan Lee, come Ben Reilly “il Ragno Rosso” e Jessica Drew, Spider-Man 2099 e Mayday Parker.
Ma si tratta anche dell’aspetto sempre meno sorprendente in opere di questo tipo (e su cui Lord & Miller hanno già ragionato tanto, anche se qui nell’inseguimento ascensionale che coinvolge tutti gli Spider-Man possibili siamo quasi in una vertigine alla Toy Story): forse, nell’epoca in cui immagini stupefacenti vengono create da bot e A.I., è più stimolante chiedersi come mai il film più maturo, complesso e “adulto” sui supereroi sia un cartone e non uno dei vari cinecomics MCU live action di questa generazione, compresi quelli “d’autore”. Forse siamo davvero sulla Terra sbagliata, c’è stato un errore quando abbiamo calcolato la meta. “La tua vita non ti appartiene”, dice la madre a Miles (citando non a caso gli ancestors), e glielo ripetono praticamente tutti durante il film: per il ragazzo (e per noi con lui) appare impossibile essere nel momento, nel qui e ora. Miles è costantemente in ritardo, sin dalla gag dell’incipit con la preside, o è già “andato avanti”, come gli ha intimato lo zio Aaron. Now’s the time, diceva Charlie Parker (o era Childish Gambino?), ma quanto è difficile trovare il bandolo di quel now. E allora la chiave diventa abbracciare l’anomalia, accettarsi come anomali, rivendicare ancora una volta la possibilità di non stare nel canone, di un gesto d’amore imprevisto e ingiustificato, di un salto nel vuoto al di là dei limiti tracciati del quadro, solo per potersi finalmente sfiorare, rifugiare in un abbraccio più forte di ogni multiverso. Nequaquam vacuum.

Titolo originale: id.
Regia: Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson
Interpreti (voci originali): Shameik Moore, Hailee Steinfeld, Issa Rae, Oscar Isaac, Brian Tyree Henry, Jake Johnson, Luna Lauren Velez, Rachel Dratch
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 140′


Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.4
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Il voto dei lettori
2.5 (22 voti)
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