Spirit World, di Eric Khoo

Un film dai due volti, capace di rivelare delle potenti verità sul lutto, e di offrire nel contempo una visione paradossalmente semplicistica ed edificante del cordoglio. RoFF19. Progressive Cinema

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A primo impatto, un film come Spirit World sembra porsi in netta continuità con i precedenti lungometraggi di Eric Khoo, e con le evoluzioni che hanno attraversato la sua filmografia, specialmente negli ultimi anni. Dal 2011, sin da quando il regista singaporiano ha realizzato un film animato sul leggendario mangaka giapponese Yoshihiro Tatsumi, il cineasta ha trovato nella contaminazione culturale, nei filamenti che legano due culture comunque diverse come quelle che contraddistinguono il paese del Sol Levante o la città-stato del Sud-Est asiatico, la chiave per traghettare le sue riflessioni verso orizzonti nuovi: fino a configurarli quale specchio della sua stessa condizione di “artista expat”, impegnato ora a raccontare storie in una nazione straniera che ha imparato a conoscere nel tempo, e di cui cerca di scardinare – in stile Paris, Texas – alcune consuetudini grazie ad uno sguardo deliberatamente non-autoctono o “esterno”. Un insieme di rimandi che anche in Spirit World sembra occupare un ruolo di primo piano.

Sulla scia del recente Viaggio in Giappone di Girard, anche in Spirit World l’indagine nel cuore degli spazi “luttuosi” e animisti del Sol Levante parte dall’arrivo nell’arcipelago nipponico di una donna francese in preda ai dolori del cordoglio. Claire (Catherine Deneuve) ha alle spalle una carriera da cantante di grande successo, ma a causa dell’improvvisa perdita della figlia e di altre contingenze relative all’età, ha smesso da tempo di imbarcarsi in tour mondiali. Ma ai suoi occhi il Giappone non è mai stato un paese come gli altri, e data l’enorme fascinazione che la sua musica ancora genera nei cuori dei nipponici, ha scelto di esibirsi per l’ultima volta in un teatro di Tokyo, davanti ad una folla di spettatori estasiati. Nonostante la lunga assenza dalle scene, la performance è un vero trionfo, eppure al termine del concerto la donna perde la vita in una taverna locale, ritrovandosi senza alcuna spiegazione logica a girovagare nella nazione sotto forma di spirito insieme all’anima di Yuzu (Masaaki Sakai), un suo vecchio fan scomparso anche lui di recente, e che prima di morire ha espresso al figlio Hayato (Yutaka Takenouchi) il desiderio di riportare un ricordo all’ex moglie, in modo che l’uomo si ricongiungesse finalmente con l’ignota madre.

Eric Khoo dà vita così ad un duplice viaggio, dove gli spazi costieri del Giappone (quelli in cui si muove Hayato) si sovrappongono senza alcuna soluzione di continuità alle cornici trascendentali del mondo delle anime, e in cui il regista cerca di declinare i tentativi dei tre protagonisti di Spirit World di metabolizzare il senso di perdita che stanno – con le dovute differenze – provando, anche grazie all’abbattimento di qualsiasi barriera esistenziale e culturale.

E finché il cineasta singaporiano si focalizza sul cammino di Hayato, e sulla sua necessità di individuare nella figura materna non il ricongiungimento con ciò che non ha mai conosciuto, ma lo strumento con cui arrivare a comprendere il dolore provato per l’assenza del padre, il film trova la sua dimensione. Ma è nel momento in cui Spirit World sposta il focus su Claire, e sulle sue interazioni con il defunto Yuzu, che il racconto rischia di compromettere, se non addirittura di contraddire, tutte le riflessioni portate avanti dalla narrazione. Al punto che la cantante francese appare qui come un mero espediente di quella contaminazione culturale da cui si è originato l’incipit della storia, e che nel film non si astrae mai dallo statuto di “premessa” o mero antefatto. E alla luce di questa difficoltà evidente di Khoo nel drammatizzare le crisi del personaggio, non sorprende che tutti gli accenni ai dolori e agli sfasamenti del lutto anticipati nel (solo) prologo del film non abbiano poi avuto una continuazione nel prosieguo della narrazione. Con il racconto che lascia così il suo cammino perlopiù abbozzato ed inconcluso, soppiantato da una semplicistica, e smaccatamente edificante, visione del cordoglio filiale/materno.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)

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