Squali. Intervista ad Alberto Rizzi

Come è possibile oggi riadattare il linguaggio dell’epica, così da farlo rivivere al cinema? Un western italiano presentato alla Festa del Cinema di Roma ci ha provato. Abbiamo intervistato il regista

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La nostra intervista ad Alberto Rizzi, regista di Si muore solo da vivi e Squali, presentato nella sezione Panorama Italia dell’ultima edizione di Alice nella città. Il secondo lungometraggio di Rizzi, in questo caso fuori concorso, si muove tra i topos della favola nera e quelli del western moderno, passando per la letteratura russa e l’epica. Ne abbiamo scritto QUI.

 

Sul western moderno, genere che in Italia sembra essersi perduto e solo di recente ritrovato, perché hai scelto di rivisitarlo?

Penso che in questo mi abbia aiutato la matrice antica, ancestrale che da sempre appartiene al cinema western. La stessa che appartiene anche ai linguaggi dell’epica e della tragedia greca. Quando hai a che fare con dei personaggi così complessi, ma elementari, basilari nei loro istinti, che non sono quindi per niente borghesi, anzi estremamente epici, allora intercetti subito la via del western che è epica moderna. Se tu a questo genere togli le pistole e i cavalli, diventa subito Edipo Re che ha una storia perfettamente aderente ai linguaggi del cinema western. Io sono un grande appassionato di tragedia, epica ed è ovvio che la matrice de I fratelli Karamazov in questo aiuta. Perché uno dei grandi meriti di Dostoevskij, è proprio quelli di creare dei personaggi che incessantemente vivono questa frontiera emotiva ed è tale perché poi quella del western è sempre una frontiera metaforica no? Tanto dell’anima, quanto di luogo. Pensa a Balla coi lupi. La parte interessante lì è quella della frontiera interiore, più che quella esteriore.

 

L’ispirazione principale, è quella de I fratelli Karamazov, eppure la tragicità di Squali, sembra guardare a Shakespeare, più nello specifico al Macbeth. È qualcosa di pensato?

È vero. I miei sono comunque personaggi shakespeariani, ma siamo sempre lì. Sono grandi personaggi rispetto ai quali puoi legare vere e proprie categorie umane e non delle persone in senso stretto. Io leggo Macbeth e ritrovo l’avidità, ancor prima di ritrovare un uomo avido. Ed è l’esatto opposto della commedia. Se guardo Arlecchino vedo un furbo. Se invece vedo Achille vedo la guerra e non un guerriero. Quando vedo Shylock vedo la cattiveria e il mio Leone è Shylock, è cattiveria pura e non la sua parodia.

 

Prima d’essere lupi, siamo stati squali” rivela il padre di famiglia. Cosa muove realmente i tuoi personaggi?

Più in generale, mi piaceva l’idea di un racconto su un posto; in questo c’è anche il western; in cui le cose accadono, semplicemente perché è maledetto e segnato da una specie di sorte oscura. La visione di Leone è proprio questa. Lui ripete a sé stesso e agli altri: “Io sono il mio territorio”. Un concetto che torna anche in The Departed, se ti ricordi. Jack Nicholson che dice: “Io non voglio essere un prodotto del mio territorio. Io voglio essere il mio territorio”. Il significato profondo della dichiarazione di Leone è proprio: “Siamo sempre stati così. Io sono il territorio, così crudele e avido”. I personaggi del mio film sono tutti così. Sono avidi di qualche cosa. Ne I fratelli Karamazov io ho letto questo, un romanzo sull’avidità e volevo quindi fare un film sull’avidità umana. Su questi squali che si sbranano tra loro e che ancora prima di essere squali, sono fossili. Come a dire che sono e siamo sempre stati avidi, tanto rispetto ai soldi, quanto ai sentimenti.

Intervista ad Alberto Rizzi, regista di Squali

La famiglia che racconti, appare destinata a soccombere fin dalle primissime sequenze. C’è una maledizione, quasi orrorifica che la perseguita, conducendola al crollo e all’abbandono. Ancor prima del western e del dramma familiare, hai voluto esplorare l’horror rurale. Quali sono stati i tuoi riferimenti in questo senso?

Assolutamente sì. Anche se a dirla tutta sono da sempre disinteressato a definire il genere delle cose che penso. Vado alla ricerca di quella che è la chiave comune, che poi sta alla base della tragedia, dell’horror e del western. Quindi sì mi interessa quel mondo lì. In Squali ci sono le tre grandi paure dell’umanità che ci racconta Freud: la condanna dell’omicidio, la condanna dell’incesto e la tumulazione dei morti. Tutti e tre vengono trasgrediti nel mio film. Rispetto a questo, diventa profondamente horror. 

 

I dialetti invece sono raramente protagonisti del nostro cinema, eppure frequenti nelle produzioni estere (gli slang, alle derivazioni linguistiche delle contee). C’era qualcosa che già apparteneva alla sceneggiatura oppure è venuto fuori in corso d’opera, osservando gli interpreti in scena?

Ci siamo interrogati per molto tempo rispetto a quanto dialetto mantenere. Anche se poi in realtà il film non è in dialetto. Loro parlano in italiano con accento veneto. Solo Leone, al padre ogni tanto sfuggono delle espressioni. Sapevo benissimo che questo avrebbe creato un effetto, proprio perché questo tipo di cadenza non è comune nel cinema. Qui senz’altro appare strano, me ne rendo conto. Essendo il cinema in Veneto un’esperienza più rarefatta e meno consolidata. Io me ne sono fregato di “ripulire” il linguaggio e la parlata dei miei personaggi, perché penso che il film mantenga comunque una sua funzionalità e un suo peso, pur perdendo di tanto in tanto qualche espressione locale. Poi perché non rivendicare il fatto di star facendo cinema in Veneto, quando ti ritrovi a farlo fino in fondo? 

 

C’è stato in fase di lavorazione, o ancor prima di scrittura, un cinema capace di influenzare ciò che Squali poi è diventato, oppure no?

Certamente amo i Fratelli Coen. Devo dire però d’aver fatto un’esplicita dichiarazione d’amore e d’intenti a I pugni in tasca di Marco Bellocchio. Ho omaggiato poi anche Pasolini, rispetto ai titoli di testa, fino alla scena della camminata dei fratelli, che guarda a Mamma Roma. Preferisco comunque il ruolo del saccheggiatore, a quello del semplice citazionista. 

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