STALLONE/HILL – Proiettili vaganti
In un cinema come è quello di Walter Hill oggi non può esserci corpo migliore che quello segnato dagli anni e dalla fatica ma eroicamente resistente di Sylvester Stallone, che nelle immagini del regista di 48 Ore e Danko diventa cartografia di un vissuto che fonde cinema e vita. Forse la (loro) dissolvenza incrociata è appena iniziata
Entrambi sceneggiatori oltre che registi delle loro opere, Stallone e Hill non hanno mai rinnegato la natura operaia del loro approccio al cinema. Un modo di scrivere e dirigere d’altri tempi, in cui l’odore della pellicola si fonde con quello della macchina da scrivere e di set in cui il primo comandamento sembra essere quello di portare a casa il massimo con budget non sempre altissimi, senza permettersi il lusso di sprecare un’inquadratura o uno stacco di montaggio. Perché il cinema è un’arte seria che deve piacere ma anche rimanere in piedi. E anche rendere felice chi lo fa. Nella sua intervista al Festival di Torino di alcuni anni fa Walter Hill (nella foto accanto sul set di Strade di fuoco) disse delle cose emblematiche al riguardo: “Credo che ci siano tre tipi di film, i film che si fanno per il pubblico, i film che si fanno per la critica e i film che si fanno per se stessi. Credo che la cosa migliore sia girare i film per se stessi, seguire sempre i propri gusti, le idee che si hanno in mente, senza perseguire un successo incerto.” Non ci sembra incongruo applicare questa riflessione anche al cinema di Stallone che a un certo punto della sua produzione forse proprio per assecondare eccessivamente il “gusto degli altri” ha rischiato di perdere il “suo” pubblico. Se per Sly la rinascita dall’oblio di quei terribili anni ’90 fatti di flop al botteghino e incertezza direzionale era stata inaugurata dalla bilogia magnifica Rocky Balboa/Rambo e proseguita con I mercenari 1 e 2 in quella che passo passo sta diventando un’intelligente ed estrema riflessione stalloniana, nostalgica e fuori dal tempo, sulla sopravvivenza al mondo(del)cinema, per Walter Hill – togliendo la fortunata parentesi della miniserie Broken Trail – Bullet to the Head segna il suo primo lungometraggio dopo dieci anni. Dobbiamo infatti risalire a Undisputed per ricordare la firma di Hill in un film che già allora ci apparve come “strana meteora senza tempo”.
Per questo in un cinema come è quello di Walter Hill oggi non può esserci corpo migliore che quello segnato dagli anni e dalla fatica ma eroicamente resistente di Sylvester Stallone, che nelle immagini del regista di 48 Ore e Danko diventa cartografia di un vissuto che fonde continuamente pubblico e privato, cinema e vita. Inizia da qui il fascino di un film prezioso ed extraterrestre come Bullet to the Head. Assolo anarchico a quattro mani – pare infatti che Stallone abbia preteso una supervisione al montaggio – in cui regista e attore continuano a rimpallarsi battute, gesti, memorie, confessioni come fosse la comunicazione interna tra due vecchi eroi che ne hanno viste tante. Forse la (loro) dissolvenza incrociata è appena iniziata.