STAR WARS COUNTDOWN – L’impero colpisce ancora (1980)

Nell’episodio più cupo il romanticismo sfrenato muove il Cinema verso una memoria collettiva che diventa Morale. Siamo ancora fanciulli, ma stavolta arriviamo a scoprire cos’è il dolore.

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Parliamo forse del blockbuster più autoriale e importante tra quelli usciti nel post-’77. Se è vero che il secondo atto di un’opera è quello più incerto e tormentato, in cui l’eroe deve affrontare la crisi e il “problema” del viaggio, per poi risolverlo nel finale, L’impero colpisce ancora – sequel di Una nuova speranza – ne è esempio emblematico, il capitolo maggiormente cupo della “vecchia” trilogia concepita e realizzata da George Lucas. È l’episodio di mezzo. Quella della fuga e della sconfitta, dove tutto sembra perduto per i Ribelli e per gli ultimi detentori della Forza, immortalato dalla imponente e wagneriana Imperial March di John Williams, forse uno dei temi musicali più “allucinati” di sempre. Ne L’impero colpisce ancora il Lato Oscuro ha la meglio sugli eroi lucasiani, con quel colpo di scena finale che rimane forse uno dei momenti più conosciuti della storia del cinema. “Sono tuo padre” rivela Darth Vader a Luke Skywalker appena dopo avergli amputato la mano. Una soluzione di sceneggiatura decisa dallo stesso Lucas, ma che fino all’ultimo momento rende insicuro l’autore di American Graffiti al punto da affidarsi  – si dice – persino alla consulenza di psicologi per valutarne l’impatto emotivo e commerciale.

Giocato quasi meccanicamente nel montaggio parallelo che segue la fuga del Millennium Falcon dalla flotta imperiale da una parte e l’addestramento di Luke con il maestro Yoda dall’altra, L’impero esplode nella prima parte in una straordinaria sequenza di battaglia tra i ghiacci del pianeta Hoth che è uno dei pezzi di bravura dell’intera saga e che cromaticamente delinea il film nella dicotomia bianco/nero su cui è incentrato il conflitto dei personaggi. Emergono per la prima volta nuove figure che entreranno presto nell’immaginario collettivo di Star Wars: il cacciatore di taglie Boba Fett, Lando Calrissian, l’imperatore Darth Sidious.

Rispetto al film del 1977 Lucas attenua il neoclassicismo western per puntare direttamente a un ritmo sfrenato in cui l’azione dialoga continuamente a distanza con l’introspezione psicologica. Più spettacolare e “intimista” L’impero colpisce ancora deve attribuire i suoi meriti alla sceneggiatura del giovane Lawrence Kasdan – che lo stesso anno avrebbe esordito alla regia con Brivido caldo – e alla cupa fotografia di Peter Suschitzky, che aveva già illuminato il glam di The Rocky Horror Picture Show e che successivamente avrebbe fatto le fortune di David Cronenberg . Ma certamente un ruolo non di secondo piano va attribuito a Irvin Kershner, già professore di Lucas all’università e qui chiamato dal suo pupillo dietro la macchina da presa per la sua affidabilità nella direzione d’attori. Raggiunge lo zenit della sua non eccelsa filmografia (Mai dire mai, Robocop 2) e trova sfumature inaspettate non tanto nelle straordinarie soluzioni scenografiche e visive di chiaro stampo lucasiano, quanto nei botta e risposta sentimentali tra la principessa Leila e Han Solo, forse la storia d’amore più intensa mai vista su grande schermo in un film di fantascienza, mirabolante traiettoria melò che trova il suo sublime scenario favolistico nell’astrattismo pittorico che incornicia il set della Città delle nuvole. Ecco l’epilogo di questo episodio V, esteticamente vicinissimo ai tableau digitali che tanto a fondo avrebbero marchiato due decenni dopo la seconda, più recente e sottostimata, trilogia lucasiana. Tra Freud, Kurosawa e Howard Hawks il romanticismo sfrenato muove lo spettacolo del Cinema verso una memoria collettiva che diventa Morale. Siamo ancora fanciulli, ma stavolta arriviamo a scoprire cos’è il dolore.

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