Stardust Memories – Françoise Dorléac

Simbolo di un cinema francese a tutta velocità, Françoise Dorleac resta un mistero iscritto su un volto che racchiude un decennio irripetibile. Ritratto di un’interprete ingiustamente dimenticata

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Je crois que c’est un métier ou il faut s’arrêter avant que les gens vous démande de vous arrêter– Françoise Dorléac

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“Credo che sia un mestiere in cui bisogna fermarsi prima che la gente ti chieda di farlo”. Terminava così la breve intervista rilasciata alla televisione belga, a Cannes 65, con questo secco giudizio sul mestiere d’attrice, espresso con sguardo malinconico e una voce un po’ grave, che a quasi cinquant’anni dalla sua morte, suona come un triste presagio.

Così come la dichiarazione, inaspettata per una venticinquenne all’apice del successo, che chiudeva un’altra intervista, accanto a sua sorella Catherine, per la commedia musicale di Demy, Les demoiselles de Rochefort: «Io non voglio invecchiare. Ho il terrore della morte», pronunciata pochi mesi prima del fatale incidente d’auto, il 26 giugno del 1967, mentre correva verso l’aeroporto di Nizza.

Ma d’altronde, l’intera, seppur breve, esistenza di Françoise Dorléac è stata una continua sfida alle proprie paure, una roulette in cui la posta è sempre stata il Cinema, quello con la C maiuscola, non tanto e non solo per la fama e il successo – per quanto ammettesse che ne valeva la pena solo a patto di farlo ai massimi livelli, lontano dalla mediocrità – quanto perché essere attrice era per lei l’unico modo di vivere la vita stessa.

 

Un amore, quello per il palcoscenico e lo schermo, respirato sin dalla più tenera infanzia accanto ai genitori attori, Maurice Dorléac e Renée Deneuve, doppiatrice delle grandi dive americane Esther Williams e Judy Garland.

Diversamente dalla fitta compagine di adolescenti anni ‘60 “bonnes à tout”, come il piccolo film televisivo del ’65, in cui appare accanto a Macha Méril, per cui il cinema è, come il canto o la tv, un modo per guadagnare un po’ di soldi in attesa del matrimonio, questo sogno Françoise lo coltiva giorno per giorno, studiando danza e recitazione al Conservatorio, dopo essere stata cacciata dal liceo, lavorando come modella, nella speranza di poter recitare al più presto, ma con la consapevolezza che «è un mestiere in cui non bisogna avere fame».

 

l'homme de rioUn po’ choosy, le avrebbero detto in tempi infelici. E invece, in quella Francia che stava per essere sommersa dalla nuova ondata di giovani cineasti, questo atteggiamento paga: Françoise inizia a lavorare regolarmente divenendo ben presto la promesse, un nome e un volto su cui puntare. Les portes claquent (sbattono) nel suo primo film importante, diretto da Michel Fremaud e Jacques Poitrenaud, ma non per lei. Per Françoise Dorleac sembrano invece spalancarsi, accumulando una gavetta di lusso, con piccoli ma continui ruoli tra cinema e teatro, spaziando da maestri come René Clair a giovani esordienti della Nouvelle Vague, come Michel Deville.

È in questi anni che la bruna dai capelli corti plasma la sua immagine da diva internazionale: lunghi capelli biondi, il volto magro incorniciato da una frangia fitta che nasconde parzialmente lo sguardo, evidenziato da un trucco degli occhi destinato a esaltarsi nel bianco e nero della pellicola.

la chasse à l'hommeTrasformata da giovane parigina anni Cinquanta in una più internazionale ragazza da Swinging London, Françoise diventa una delle icone del nuovo cinema francese: non tanto della cerchia dei Cahiers, che, fatta eccezione per Truffaut, troverà altrove le proprie muse, quanto nelle opere di Philippe de Broca ed Edouard Molinaro, che ne esaltano le qualità interpretative: il 1964 è l’anno della consacrazione, con un poker di film al botteghino.

La Dorléac diventa il volto di un cinema à toute vitesse, di peripezie rocambolesche e divertiti calembour: Broca, uno dei suoi più cari amici, la dirige in L’homme de Rio, accanto a Jean-Paul Belmondo. Una commedia d’azione innescata dal furto di una statuetta malteca, hitchcockiano mcguffin di una caccia al tesoro internazionale dove Françoise dà prova di uno spiccato senso del ritmo, trovando in Belmondo un partner a cui tenere testa: balla con i bambini di Rio, guida un’incredibile Chrysler rosa dalle stelle verdi per le strade brasiliane, si butta, insomma, a capofitto in un film folle, tutto giocato sulla velocità, su jump-cut narrativi che mettono in crisi lo statuto classico del genere per introdurvi uno spirito anarchico e sovversivo.

Ma a uno sguardo retroattivo L’homme de Rio è soprattutto il film che, assieme al delizioso La chasse à l’homme di Molinaro, fa tracciare a Françoise un ruolo assegnato poi dal destino a sua sorella, quello di Julie/Marion, la crudele Sirene du Mississipi.

Perché se Broca la affianca a Belmondo in un’avventura esotica, Molinaro le affida invece la parte di una seducente e misteriosa dark lady fonte di guai per lo scapolo impenitente Jean-Claude Brialy, altro partner abituale di Françoise in questa grande e allegra famiglia che è il cinema francese degli anni Sessanta.

dorleac e truffautTra la commedia di costume e il giallo, vissuto sempre a un ritmo vorticoso, figlio di un’epoca intensa, à bout de souffle, il ritratto di adorabile opportunista dato da Françoise, sembra costituire un vero canovaccio per il regista de La mia droga si chiama Julie.

Quasi alle prese con un hitchcockiano «complesso di Scottie», con il film del ’69 Truffaut sembra voler rendere un ultimo tributo alla sua Framboise, lasciando che  il simulacro, l’immagine così somigliante, di Catherine, si sovrapponesse all’essenza di Françoise, attraverso un ruolo che aveva incarnato così bene, con quella grazia selvaggia che le apparteneva, ben lontana dal freddo controllo della sorella.

L’incontro con François Truffaut è, del resto, qualcosa che muta nel profondo le performance della Dorléac: dopo tante commedie dal ritmo sostenuto le si chiede di rallentare, di scoprirsi di più, non soltanto per i centimetri di pelle mostrata in un film che, invecchiando, mantiene intatta la propria carica erotica, ma soprattutto come attrice.

francoise-dorleac-la peau douceTruffaut, che ama riprenderne il profilo delicato, il collo lungo e sottile, e le movenze aggraziate (tornando a citare la scena in cui posa fuori dalla porta il vassoio della colazione in Effetto notte…), le insegna a lasciarsi andare davanti alla macchina da presa, a non nascondersi dietro i capelli o ai movimenti rapidi, ma a saper restare immobile, offerta inerme allo sguardo desiderante di Pierre Lachenay e del pubblico.

Uno scarto sostanziale per un’interprete che aveva dato tutto e a tutta velocità, ma che poco aveva realmente concesso di sé. Ma La peau douce segna anche un momento critico, in cui per la prima volta Françoise è messa di fronte al temuto fallimento, a quel senso di mediocrità cui si sente costretta malgrado l’impegno, la passione, e dal confronto con la sempre più lanciata Catherine.

les demoiselles de rochefort

A Cannes ‘64 le due sorelle gareggiano una col film di Truffaut, massacrato dalla stampa e deludente al botteghino, l’altra da protagonista ne Le parapluies de Cherbourg di Demy, che conquista la Palma d’Oro. Pur molto legate, Dorléac e Deneuve diventano per i media una sorta di Eva contro Eva, la prima pronta a tutto pur di riuscire nel cinema, l’altra più pigra, trascinata nell’ambiente più dagli eventi che da una reale convinzione, ma a cui tutto sembra riuscire al primo colpo.

Soprattutto, Catherine sembra possedere una specie di freddezza, di autocontrollo, che la rendono più adatta alle crudeltà del mondo del cinema. Più fille légère, ama rompere gli schermi, si diverte, ha un figlio con Roger Vadim fuori dal matrimonio, gode dei privilegi della fama, mentre Françoise, sempre poco incline ai compromessi, in attesa di un amore definitivo, resta in casa con i suoi, per trasferirsi giusto dall’altro lato della strada.

françoise dorleac_cul de sacIl suo unico amore resta infatti il Cinema, il suo obiettivo ancora diventare una star, per quanto l’incalzare della sorella e delle nuove levi di ventenni le abbiano reso il sogno più amaro.

Allora, mentre Catherine diventa l’icona del cinema francese, Françoise sposta il suo raggio d’azione in Inghilterra e in America, dove il suo volto inquieto si presta a reinterpretazioni di genere di una certa bellezza francese: entra nel cast all star del Genghis Kahn di Levin, si unisce a Michael Caine nella terza avventura della saga di spionaggio dell’agente Palmer, in Billion Dollar Brain, diretta con ironia da Ken Russell, ed eredita da Catherine Roman Polanski, che aveva diretto l’anno prima sua sorella in Repulsion.

In Cul de Sac, adattamento beckettiano dei consueti rapporti di forza del cinema polanskiano, nel ruolo di Therèse, riesce a rimanere impressa con pochi dialoghi, come pura presenza: spogliata di ogni orpello, di ogni appiglio a possibili vezzi interpretativi, Françoise dà vita a un personaggio magnifico, sfuggente ed enigmatico, forse quello che, a conti fatti, più le somiglia.

Perché, nella sua brevissima parabola, il ritratto che di lei emerge al netto delle interviste, dei filmati rimasti, delle meravigliose fotografie in bianco e nero, è quello di un’anima irrequieta che il Cinema pur tanto amato non ha saputo catturare.

Come un piccolo rosebud wellesiano, Françoise Dorléac resta un mistero iscritto su un volto e un sorriso, “inaccettabilmente reciso di netto” come scriverà Truffaut, che racchiudono un decennio affascinante e irripetibile. Riuscendo in fondo a coronare il sogno di appartenere non al mondo ma allo schermo.

 

 

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