Stars at Noon, di Claire Denis

Un thriller in potenza in cui la tensione si traduce in una linea continua di inquietudine fisiologica. Solo in pochi istanti, Claire Denis riesce a trovare intensità e libertà. Concorso.

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Ancora una volta Claire Denis sembra flirtare con il genere, per deviarlo su una specie di binario morto. Qui lo spunto è da spy thriller, a partire dal romanzo omonimo di Denis Johnson, ambientato durante i turbolenti anni ’80 in Nicaragua, nel momento storico in cui le ingerenze statunitensi cercavano in tutti modi di porre fine all’esperienza sandinista. Ma Denis sceglie di spostare tutto al contemporaneo, finanche nei segni evidenti della pandemia. E del resto, quello che racconta non è di certo un presente meno turbolento, in un paese pesantemente militarizzato e segnato da torbide connessioni tra interessi economici e politici.

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In questo clima, una giornalista americana si ritrova alle strette nel momento in cui le viene ritirato il passaporto. Probabilmente le sue inchieste sono andate un po’ troppo in là. Anche se il personaggio non corrisponde certo agli stereotipi della reporter impegnata, d’assalto. Anzi. Sembra una ragazza sbandata, disposta a usare ogni mezzo, pur di venirne fuori da una situazione ingarbugliata. E il sesso è la prima arma. Ma gira a vuoto. Finché non si aggrappa a un misterioso uomo inglese, anche lui al centro di intrighi poco chiari. Durante una serie di concitate avventure, quello che sembrava un semplice rapporto di convenienza, si trasforma in sentimento.

Ecco, Claire Denis prosciuga l’azione, fino a ridurre la trama a un pretesto. Anzi facendola deragliare a tratti nella confusione, in una successione di deviazioni e imprevisti, tra militari, affaristi corrotti, agenti della CIA (tra cui Benny Safdie, la cui presenza, sempre più, assomiglia a un certificato di indipendenza) Fino ai segni della pandemia, con le mascherine, le sommarie misure di prevenzione che funzionano come ulteriori dissuasori di percorso. Alla fine, insomma, la tensione si traduce in una specie di linea continua di inquietudine fisiologica, come se il film fosse preda di una febbricola, di qualche malattia tropicale. Del resto, nei film migliori di Claire Denis, quel che conta è l’ambientazione, la definizione di una temperatura atmosferica, di un clima in cui gli impulsi e l’emotività dei personaggi si impastano con la sostanza politica dei rapporti. L’indicazione di una prospettiva dello sguardo dominante e la sua messa in crisi attraverso l’ambiguità degli impulsi e dei desideri. E, per questa via, il corpo acquista sempre un posto centrale. Anche qui, ovviamente. A cominciare da quello di Margaret Qualley, a cui l’obiettivo si aggrappa, per registrarne ogni minima vibrazione, dall’indifferenza alla paura, dal desiderio alla delusione. Ma si tratta, comunque, di un personaggio ambiguo, fastidioso, opportunista, completamente assorbito in una logica di strumentalizzazione di cui è vittima, certo, ma anche complice. Almeno finché la femminilità non si libera nell’adesione tra corpo e cuore. In quei momenti in cui anche lo sguardo di Claire Denis riesce a trovare un’intensità diversa, capace di staccarsi dall’umidità appiccicosa del tono generale. Ma sono  momenti palliativi. Per il resto, si resta intrappolati nella malattia tropicale. In un flusso continuo e tutto sommato indistinto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)
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