STORIE DEL CINEMA – Il cinema di Luciano Salce, ovvero come filmare l'indicibile

Lo stile, il corpo, il desiderio: passa attraverso questi “interdetti” dell’occhio, la poetica di Salce, quel modo tutto personale di deformare il presente per scoprire ciò che si agita oltre il muro dei “generi”, delle facili classificazioni e di ciò che non può essere enunciato. Ritorna la rubrica di Sentieri selvaggi, le nostre Histoire(s) du cinéma

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Luigi Tenco e Luciano Salce

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Introduzione alla rubrica “Storie del cinema”.

 

C’è un nuovo archivista che si aggira fra i link e le pagine di “Sentieri Selvaggi”. Uno spazio che riemerge dalle pieghe cartacee della rivista per riprendere a scavare la memoria dimenticata e le “ombre corte” del recente passato di celluloide. Non tanto una storia scandita da date, cronologie e successi, quanto le tante storie attorcigliate lungo l’esile filo di corpi, diacronie, sguardi e percorsi visivi mai segnati da mappe e cartografie ufficiali. Un archivio, appunto, di film, immagini e autori che, però, preferiremmo assomigliasse ad un bazar di oggetti cinematografici inconsueti, quasi un “bestiario” in senso borgesiano dove catalogare tutte le nuove “specie” e le creature “mostruose” che popolano l’immaginario di questo secolo di cinema.

Due le prospettive metodologiche da seguire: da un lato la rigorosa ricognizione e ricostruzione critica delle fonti filmiche e bio-bibliografiche (ad esempio: ogni studio su un autore dovrà contenere necessariamente un piccolo profilo biografico, una webgrafia ed una bibliografia) che riguardano l’oggetto da analizzare; dall’altro la rilettura dell’autore o del film alla luce della poetica che anima “Sentieri Selvaggi”. Con l’obiettivo di proporre le nostre personalissime Histoire(s) du cinéma…   (g.s.)

 

 

Ugo Tognazzi Il Federale di Luciano Salce

Fra le tante figure rimosse dalla labile memoria del cinema italiano – almeno quella ufficiale tramandata e scritta nei tanti ed insufficienti dizionari e manuali universitari –, la sagoma di Luciano Salce è sicuramente quella più spigolosa ed irriverente. Intellettuale, ancor prima che regista, innamorato del teatro francese, dei libri e della musica, Salce è stato sempre considerato un oggetto misterioso difficile da consegnare ai posteri, magari archiviandolo  in quell’oscuro “museo d’ombre” che è la storia cinematografica del nostro paese. Sarà per l’originale trasversalità della produzione di un uomo che si è divertito sempre a sperimentare nuovi strumenti di espressione migrando dal cinema alla televisione, dalla musica al teatro e poi ancora alla radio, in frenetica cerca di codici e convenzioni da frantumare; sarà per quella vena anarchica e surreale che trasuda da ogni inquadratura prendendosi gioco non solo delle forme visive, ma anche e soprattutto delle istituzioni e della morale borghese di un paese che ha sempre rifiutato di vedere nel grande e nel piccolo schermo uno specchio scuro e deformante. Certo è che, a quasi quindici anni dalla morte del regista romano, l’uomo e l’artista Salce sono stati cancellati dalla imprecisa e omologante mappa della cultura italiana: il museo non è riuscito a mummificare e volatilizzare i protagonisti di una manciata di film che ancora bruciano e corrodono la pelle della nostra società.     

Anche perché scorrere le sequenze girate ed interpretate da Salce in quasi quarant’anni di mestiere  significa abbandonare le fredde nicchie del museo e tuffarsi piuttosto fra i vagiti vitali di un “bestiario” borgesiano dove si rincorrono corpi mostruosi e sgradevoli, scenari grotteschi e paradossali, istinti e desideri che sovvertono schemi e abitudini di pensiero. Tutto il cinema di Luciano Salce è una irriverente alchimia di umori e sudori condensati dalla coerenza di un occhio inconfondibile, sempre in grado di ricondurre ad unità la molteplicità dei “generi” frequentata dalla macchina da presa. Uno sguardo puntato sull’Italia del dopoguerra che si nutre di graffiante ironia, di un insolito, almeno per la nostra tradizione filmica, lavoro sulle figure degli attori, e di uno stile che ama la metamorfosi e la contaminazione.

Lo stile, il corpo, il desiderio: passa attraverso queste fessure visive, o questi “interdetti” dell’occhio, la poetica di Salce, quel modo tutto personale di deformare il presente per scoprire ciò che si agita dietro la superficie dell’attuale; oltre il muro dei “generi”, delle facili classificazioni e di ciò che non può essere enunciato. Anzi: sembra che davvero l’opera di Salce – quella filmica, teatrale e televisiva – sia un lungo tentativo di filmare, non l’infilmabile in senso daneyano, ma l’indicibile; di dare grana e consistenza visiva a tutti quei discorsi – il sesso, i rapporti incestuosi, la disgregazione delle istituzioni familiari e statali – che l’Italia del dopoguerra non ha mai voluto affrontare e non si è mai voluta sentir ripetere. Parole vietate e proibite appena velate da un’ironia tutta fisica e sguaiata che è probabilmente l’autentica cifra stilistica del cinema di Salce.    

 

La voglia Matta di Luciano Salce

Un’ironia che nasce dall’insostenibile accostamento di tipi e canoni diversi e che quasi subito verso la fine degli anni ’50 – dopo una breve parentesi brasiliana dove l’artista romano recita come attore e dirige due film (Uma pulga na balança e Floradas na serra) – inizia a scardinare lentamente le geometrie e l’asciuttezza formale del neorealismo con parabole ed iperboli dense di suggestioni surrealiste, riflessi della commedia teatrale francese e chiari riferimenti romanzeschi e letterari. Primi esempi di un cinema che più che a De Sica e Rossellini punta dritto verso gli esperimenti e le rivoluzioni “sintattiche” di Glauber Rocha e Luis Buñuel, mostrando un dissacrante sarcasmo estraneo alla tradizione neorealista – anche a quella che di lì a poco confezionerà le prime pellicole del cosiddetto “neorealismo rosa”… Se il Belpaese che sta nascendo cerca di identificarsi e ritrovarsi in un cinema comunitario e catartico, le inquadrature di Salce sono già in contrappunto con le tendenze culturali e sociali del suo tempo iniziando a disegnare quella galleria di “mostri” quotidiani inaugurata, nel 1960, dal Nino Manfredi medico dalle strane abitudini sessuali e coniugali protagonista de Le pillole d’Ercole.

Ma nei primi anni ’60 un altro personaggio chiave dell’estetica di Salce si affaccia sullo schermo: è il giovane arrabbiato, insoddisfatto e contestatore interpretato da Luigi Tenco in La cuccagna, altra commedia in bilico fra sorrisi e cruda satira sociale. Una figura contaminata – già in precario equilibrio fra cinema, musica e televisione – e prototipica dei due grandi corpi a-venire del cinema di Salce: Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio. Protagonisti assoluti di un’estetica del cattivo gusto, di un’etica filmica capace di accarezzare ed amare personaggi deboli e fragili, vili e meschini, senza mai giudicarli, sfiorandoli semplicemente con il tocco di una macchina da presa “leggera” e “popolare”. Lontano, anzi lontanissimo, dalla commedia italiana moralizzante e compassionevole di Scola, Monicelli e Risi, e vicinissimo alle ottiche deformanti di Marco Ferreri (…non a caso un altro autore dalle radici “latinoamericane”), l’album fotografico di Salce è quasi una raccolta etnografica, un viaggio fra visi e caratteri, “istinti e istituzioni” dove i valori e i giudizi riposano solo fra le pieghe della carne degli attori. Un cinema bio-politico dove le “voglie matte”, i desideri repressi e poi liberati, non sono pulsioni di “morte” – vedi la morale conservatrice de Il sorpasso o lo sguardo caritatevole e benevolo posato sulle tante macchiette dei film di Monicelli -, ma esplosioni vitali che enunciano l’indicibile rompendo l’”ordine del discorso”. Il “mostro”, e non i tanti troppi mostri abbozzati ed addomesticati da cinema e televisione, prende la parola, si appropria dello schermo e del linguaggio ed inizia a balbettare il suo punto di vista sul mondo, smascherando ipocrisie e tabù.  Si discute di fascismo e libertà con echi sartriani a bordo della moto con sidecar de Il federale; si mettono in dubbio i fondamenti della famiglia in La voglia matta, Alta infedeltà e, più tardi, in quel piccolo capolavoro che è L’anatra all’arancia; si sfida l’Italia democristiana e comunista nel ferocissimo ed ormai invisibile Colpo di stato, grande parodia più che mai attuale sulla gestione democratica di questo paese. Sugli schermi riconciliati da varietà e docili commedie di costume irrompe il “biopolitico”, il corpo è strumento di controllo ed è veicolo di liberazione: la politica si combatte liberando i sensi e ridicolizzando pratiche e morali costrittive.

Il sindacalista di Luciano Salce

Ma Salce non si accontenta e alza il tiro sostituendo il corpo più “normale” e sornione di Ugo Tognazzi con quello sgraziato e quasi deforme di Paolo Villaggio; mentre grandangoli e surreali “siparietti” da avanspettacolo frantumano tempi e armonie della tradizionale satira cinematografica. Ancora una volta il regista di Fantozzi muta registro ritagliando lungo i confini di pelle di un altro protagonista uno stile più onirico e grottesco (anticipato dai sogni crudeli e politici de La Presidentessa ), dove tutte le componenti del suo cinema sembrano amplificate a dismisura. E se il ragioniere Ugo Fantozzi è ormai un “classico” della cinematografia nazionale e il Professor Kranz tedesco di Germania una prima miscela di sketch televisivi e narrazione filmica, sono gli altri tre film interpretati da Villaggio a formare un impietoso trittico sull’indicibile nel cinema italiano: Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, probabilmente il capolavoro più feroce ed irriverente della cinematografia di Salce, pamphlet geniale sulle correlazioni fra relazioni di possesso matrilineare e derive di “classe”; Il…Belpaese, altra satira impietosa sulla situazione economica dell’Italia anni ’70, quasi un controcanto ancora più amaro di Fantozzi agli scritti di pensatori operaisti come Mario Tronti, Luciano Ferrari Bravo e Antonio Negri (…tutti poco amati, come Salce, dalla sinistra di partiti ed apparati di potere); e, infine, Rag. Arturo De Fanti, bancario precario, dove si congiungono temi biopolitici e critica all’istituzione familiare. Tutte pellicole arrabbiate e popolari, drammatiche nella materia ma sorridenti nella forma, secondo quella antica lezione che affida l’indicibile alle parole leggere di clowns e giullari. Marionette tragicomiche come l’ex galeotto Lino Banfi in Vieni avanti cretino, meditazione profonda sul corpo-macchina e l’alienazione da lavoro negli anni ’80 condotta sui binari vertiginosi di un film stretto fra parodia televisiva (grazie ad un’assidua e spesso controversa partecipazione televisiva, Salce è uno dei pochi registi italiani a comprendere le potenzialità di questo nuovo linguaggio), omaggio all’avanspettacolo e una costruzione filmica interrotta da quei “buchi” cabarettistici che sono tornati recentemente nelle pellicole di Neri Parenti. Fino ad arrivare a quel Vediamoci chiaro del 1984 dove la finta cecità del protagonista Johnny Dorelli è la chiave per accedere ad un mondo di sconvolgenti verità familiari e sociali tenute all’oscuro proprio dallo sguardo. Quasi un saggio teorico per un artista che Fantozzi di Luciano Salcenon ha mai creduto tanto nella potenza dello sguardo, quanto nella possibilità di far passare attraverso lo sguardo l’inaudibile e l’inaudito del nostro passato prossimo.

 

 

Biografia.

 

Luciano Salce nasce il 25/9/1922 e muore il 17/12/1989 a Roma. Inizia la sua carriera come attore teatrale e, dopo una breve parentesi italiana, si trasferisce in Brasile dove affina le sue doti cimentandosi in ruoli comici, drammatici e satirici ed esordisce in cabina di regia. Al rientro in Italia continua a lavorare come attore di teatro prediligendo testi e commedie francesi e, nel 1960, dirige Le Pillole d’Ercole. L’anno successivo raggiunge il successo con Il Federale, primo ruolo importante affidato ad Ugo Tognazzi. Negli anni ’60 e nei primi ’70 seguiranno altri film fra cui ricordiamo La voglia matta, sempre con Tognazzi, Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, con uno straripante Alberto Sordi, Il sindacalista, con un inedito Lando Buzzanca. Contemporaneamente alla carriera di attore e regista affianca anche numerose partecipazioni a spettacoli televisivi che gli permettono di conoscere a fondo il linguaggio della TV. Negli anni ’70 raggiunge il successo con i primi due film dedicati al personaggio di Fantozzi: Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi. Il suo ultimo lavoro è la commedia Quelli del casco del 1988.       

 

Bibliografia:

 

Salce, Luciano, Cattivi soggetti, Rizzoli, Milano 1981.

Pergolati, Andrea, Verso la commedia. Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile, Firenze Libri, Firenze 2002.

 

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