Storie del dormiveglia, di Luca Magi

Opera che nasce dall’esperienza del regista come operatore presso il Rostom: una struttura d’accoglienza per persone senza fissa dimora, vicino Bologna. In tour nelle sale italiane

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Storie del Dormiveglia, vincitore del premio come Miglior Film Italiano al 14° Biografilm Festival e della Mention Spéciale Interreligieux al 49° Visions du Réel International Film Festival, nasce dall’esperienza del regista come operatore presso il Rostom: una struttura d’accoglienza per persone senza fissa dimora, situata all’estrema periferia di Bologna. Dal buio, tra una sigaretta e l’altra, emergono i volti e le parole di chi resta nel dormitorio per una sola notte o di chi ne ha fatto la propria casa. Uomini e donne con un passato difficile, esiliati in un presente di perpetua attesa. Una galassia perduta a debita distanza dal passato e dal futuro. Il Rostom è un centro gestito da Piazza Grande e frequentato da uomini e donne con disagi sociali, economici o psichici, con problemi di salute, di dipendenza, ex-carcerati o persone con un vissuto complesso e spesso drammatico. La struttura deve il suo nome a un ospite storico del dormitorio, Rostom Mollah, di origine bengalese, morto sulla strada nell’inverno del 2013. Per il ruolo che ricoprono all’interno del centro, gli operatori sociali hanno un contatto diretto e intimo con molti ospiti. Per tanti di loro, soprattutto per quelli che vivono da più tempo nel dormitorio, gli operatori sopperiscono, almeno in parte, a quei legami familiari e di amicizia che hanno spesso perduto.

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Ho avuto modo di conoscere e condividere aspetti intimi della vita di centinaia di persone ospitate nel centro – dice Luca Magi – L’impatto con questa realtà è stato violento. I suoi ospiti sono perlopiù persone emarginate, disadattate e sole. Sono sempre rimasto molto colpito – spiega il regista – da come dietro questa fragilità di uomini e donne, dietro la loro solitudine, si nascondesse una grandezza: un senso di rivolta, qualcosa di inutile e spesso distruttivo, ma al contempo capace, se visto da vicino come nel mio caso, di trasmettere l’essenza delle cose, di attraversare gli altri con qualcosa di pulsante, vitale e capace di emozionare.” La voce narrante del film è quella di David, un inglese che da sette anni vaga per il mondo ed è approdato al Rostom esausto e desideroso di rimettersi in piedi e raccontarsi. Con un registratore a cassette tiene un diario vocale in cui registra le proprie impressioni, le riflessioni sulla vita, sui propri sogni e sugli incontri con gli altri ospiti del dormitorio. Il quarantaduenne documentarista, disegnatore e videoartista, al suo terzo lavoro, naviga davvero in un’impressionante, quanto spaesante dimensione esistenziale, sospesa tra la fugacità della vita e il senso prezioso dell’attimo, di un gesto, di una maledetta voglia di respirare.

È evidente il gran lavoro di raccolta materiale e soprattutto di ricerca di empatia o quantomeno ricerca di mimesi per aprire un mondo nuovo, fatto di poesia, morte, decadenza, dolore, speranza, contemplazione. Che cos’è tutto ciò? Un’opera antinarrativa e astratta? Un esperimento d’atmosfera antirazionale? Sembra di vivere in una bolla fantascientifica in certi momenti, sembra di vivere le notti insonni di luci soffuse, voci roche, volti nella nebbia, corpi stretti nella morsa dell’immagine. Storie che si sovrappongono, che risuonano ancora nei corridoi dell’andirivieni, del luogo di passaggio, dalla veglia al sonno disturbato, fetido, sempre più mioclonico. Fosse un pezzo musicale, sarebbe una fiabesca e perturbante miscela di asperità della musica improvvisata radicale con la suadente melodia della jazz ballad. Fosse uno stile riconoscibile, viene da accostarlo a certi tipi di lavori incontenibili degli ultimi anni, di giovani autori spesso fuori dagli sche(r)mi, come per esempio Roma Termini di Bartolomeo Pampaloni, doc del 2014. Luoghi come il Rostom, forse più di ogni altro luogo urbano, si offre come superficie sensibile, su cui tutto si posa, senza mai aderirvi. Le sue sensazioni, i suoi odori, i suoi rumori costituiscono una teatralità quotidiana che la trasforma, nel senso forte della parola, in oggetto animato, materialità dotata di vita. Il regista lascia la speranza del ritorno ad una vita normale combinarsi con il ritorno delle tenebre marmoree, distese su un cartone, avvolte in coperte sempre troppo corte.

È tutto un riflesso e di riflesso nella “vetrinizzazione” moderna. Rostom è una vetrina trasparente, reticolo denso del mondo fisico e sociale, segnato da un’infinità di impulsi, una molteplicità di motivazioni. Si fa ricettacolo di sonorità spezzate dalla quotidianità, voci del provvisorio, del transitorio. Si cerca l’attimo fuggente, indugiando sui volti, la teatralità dei corpi, sul non-finito, lasciando emergere transiti tra luci, ancora ombre e gradazioni. Rostom si fa visionario perché proiettata alla partecipazione. Visionario perché capace di filtrare il mondo fuori attraverso giochi di prossimità e di conflitti, agendo su noi spettatori, transitando da un punto all’altro con libertà. Sottraendosi ad ogni grammatica lineare, dipingendo processi incompiuti. È sintagmatica: sintassi plurale, fatta di tragitti incoerenti. Non è solo visione, ripresa della vita, in cui la distanza dissiperebbe la mobilità nello sguardo. E’, appunto, partecipazione che offre vie possibili, anche di cadute nel baratro, dispiega archivi di ipotesi e di tracce. Lo sguardo è spaesato, decentrato e sceglie le figure dell’erranza e dello sconfinamento, come il fumo eterno di sigaretta versato nella notte.

Regia: Luca Magi
Distribuzione: Kinè
Durata: 67′
Origine: Italia, 2018

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