Stranger Eyes, di Yeo Siew Hua
Un saggio straordinario sull’atto del guardare, e sulla condizione di ipervisibilità a cui sono quotidianamente sottoposti tutti i cittadini delle megalopoli contemporanee.
C’è sempre qualcuno che guarda. In uno stato-metropoli insulare come Singapore, dove l’altissima densità di popolazione si intreccia inestricabilmente con l’assoluta pervasività dei sistemi di (video)sorveglianza, nessuno è al riparo dall’atto del guardare, e dalle pulsioni, sia voyeuristiche che trasformative/riflessive, che si celano dietro questo fenomeno scopico. L’esser visti, seppur sia un fattore accettato come una consuetudine ordinaria, può rivelare paradossalmente delle verità nascoste agli occhi di guarda o di colui che viene osservato, specialmente se tale azione è declinata negli spazi della quotidianità: suscettibili di essere “invasi” e di conseguenza di venire emotivamente violati con un semplice gesto, che sia esso umano (quindi riconducibile allo sguardo di un uomo/voyeur) sia artificiale/digitale. Ed è proprio in nome di questa vulnerabilità intrinseca dell’individuo all’atto del vedere, esaltata dalla distribuzione capillare delle camere di sorveglianza lungo il reticolo urbano singaporiano, che i personaggi di Stranger Eyes si troveranno “vittime” di processi trasformativi su cui non possono esercitare il minimo controllo.
Agli occhi del regista di Singapore Yeo Siew Hua (già vincitore del Pardo d’oro con A Land Imagined) nessun abitante della città-stato del Sud-Est Asiatico ha la facoltà di appropriarsi dello sguardo, e di respingere così la violazione delle proprie libertà individuali perpetrata dalla pervasività della sorveglianza, in tutte le sue forme. Non a caso il cineasta di Stranger Eyes fa iniziare il racconto sul solco di Niente da nascondere, per poi sovvertirne immediatamente i registri (non esiste la glacialità disumana di Haneke) così come l’ontologia dei sistemi di riproduzione qui osservati.
Da questo punto di vista, l’incipit sembra connotarsi sin da subito di una valenza indubbiamente teorica: una coppia sposata, la cui bambina è stata da pochi mesi rapita da ignoti, riceve un giorno un filmato amatoriale registrato su un dvd, in cui osserviamo i due giovani genitori nelle loro azioni quotidiane e prive di un significato ulteriore. A primo impatto Stranger Eyes sembra così indagare, grazie all’oggettività di una mini DV, quell’abbattimento delle barriere tra il privato e il pubblico a cui i cittadini delle megalopoli sono ormai stati destinati dall’onnipresenza delle “macchine” nel sostrato urbano. Ma nel momento in cui il punto di vista si sposterà sul voyeur (il leggendario attore taiwanese Lee Kang-Sheng) ecco che l’atto del vedere si innerva di connotazioni inedite, quando non addirittura umanizzanti, tali da mettere in moto un discorso stratificato sulla riflessività della simulazione, senza mai entrare in discontinuità con le (tante) questioni che verranno di lì a breve sollevate.
Ciò che dona una radicalità palpabile a Stranger Eyes è questa propensione del cineasta non solo a rivelare i traumi e le crisi degli individui attraverso le immagini che ne riproducono l’aspetto, ma è soprattutto l’attitudine del regista a servirsi del tema della sorveglianza – sia di origine videografica, che puramente umana – per plasmare le personalità dei protagonisti in nome di una condizione di ipervisibilità che porta al collasso dell’idea di un’identità stabile ed univoca. Nell’interazione tra il vedere e l’essere visti, sia la coppia di genitori sia il voyeur perdono il senso di loro stessi, e nel contempo lo riacquistano. Perché tutti loro – e, per estensione, tutti noi che viviamo all’ordine del giorno sotto lo sguardo panottico della sorveglianza – si configurano come testimoni involontari della vita degli altri, dal momento che il contatto con l’esterno, il modo in cui si appare all’occhio altrui e a quello delle camere, permette a chi guarda di formulare giudizi personali sulla personalità del prossimo, e a chi è guardato di rivelare lati inattesi di sé. Specialmente se a riprendere le persone, sembra suggerirci Yeo Siew Hua con la storia del voyeur, sono le strumentazioni del cinema. Ancora capaci di riconfigurare il punto di vista su un dato fenomeno, e di estendere la conoscenza che abbiamo dello stesso verso confini (in)immaginabili.
Titolo originale: Mo Shi Lu
Regia: Yeo Siew Hua
Interpreti: Wu Chien-ho, Lee Kang-sheng, Anicca Panna, Vera Chen, Xenia Tan, Pete Teo, Mila Troncoso
Distribuzione: Europictures
Durata: 125′
Origine: Singapore, Taiwan, Francia, 2024