Stray, di Elizabeth Lo

Uno sguardo profondamente umano su Istanbul e la Turchia che ci restituisce la complessità del presente e di un’identità sempre più fluida. In Concorso ad Alice nella città

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“I cani danno il bene più grande e ricevono la più piccola ricompensa”.

È solo una delle tante citazioni che si susseguono in Stray, film d’esordio di Elizabeth Lo presentato in concorso ad Alice nella città. Sono quasi dei postulati messi a cornice per dare un punto d’inizio a un filo che non segue una linea definita ma che anzi viene lasciato completamente libero di vagare. Perché la prospettiva scelta per questa osservazione documentata della realtà – siamo a Istanbul e in altri luoghi della Turchia, ci informa la didascalia finale – è quella di un gruppo di cani randagi ognuno con un nome che sta ad affermare invero una non appartenenza, non tanto a una persona, a un padrone, quanto a una cultura e a una civiltà stesse.

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Così facendo Lo sembra voler annullare ogni tipo d’intermediazione, ponendosi dentro e fuori la narrazione, il tempo, la Storia: il corpo canino, immutabile nel suo passaggio attraverso i millenni, accompagna da sempre l’umanità di cui coglie in sottofondo delle tracce. Non può dare giudizi essendo un testimone inconsapevole di fatti che scorrono in un flusso indistinto di voci, rumori, situazioni. È il presente che si mostra agli occhi dello spettatore domandando di essere ascoltato e interpretato: che assume forme a volte imprevedibili e bizzarre – i cani che si accoppiano durante una protesta femminile sui diritti delle donne; altre volte addirittura umanizzanti in questo abbraccio di compassione che stringe insieme il destino dei randagi e quello di un gruppo di ragazzi costretti a dormire per strada e a far fronte comune per sopravvivere. Ciò che emerge è essenzialmente un’identità fluida percorsa da questioni di carattere sociale – si parla di cittadinanza, di permessi di soggiorno – e privato – conversazioni rubate a una coppia seduta a un bar o a due persone che passeggiano tra la folla.

Lo, che viene da un’esperienza di corti documentari, si sposta nel cinema del reale con una consapevolezza tecnica ed espressiva che non mira all’assoluto; cerca piuttosto di rappresentare il quotidiano nella sua complessità, in una dimensione cioè che è sia spaziale che temporale: ci sono Diogene e Temistio, filosofi dell’antica Grecia che vengono richiamati a più riprese; e c’è Orhan Pamuk, autore di un pensiero moderno sulla società turca che, non a caso, riflette sul senso più profondo di coscienza storica. E c’è infine lo sguardo umano di questi quadrupedi che riempiono le strade e le spiagge deserte, e che intonano il richiamo del muezzin che al tramonto si diffonde per tutta la città fino ad arrivare a una fortezza in cima a un altopiano.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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