Streets of America. Il cinema di John Singleton

Omaggio al cineasta afroamericano. Un umanista che inseguiva l’umiltà dello spettacolo e le immancabili ombre del contemporaneo.

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In quel magnifico racconto di formazione all black che è Boyz ‘n the Hood (1992) c’è un frammento in particolare che da sempre mi porto nel cuore. Il piccolo Tré ha i genitori separati e vive in un quartiere malfamato a sud di Los Angeles insieme al padre, interpretato da Lawrence Fishburne. Quest’ultimo vuole fare di lui un afroamericano realizzato e “giusto”. Una mattina per consolidare il loro legame lo porta a pescare e gli racconta la sua esperienza in Vietnam: “Non arruolarti mai, un uomo di colore non c’entra niente con l’esercito!” Mentre tornano a casa dall’autoradio escono le note di Ooh Child (Things are gonna get easier) dei Five Stairsteps, un classico degli anni ‘70 che sarebbe poi stato inserito anche nelle soundtrack di Croocklyn e de I guardiani della galassia. “Quanto mi piace questa canzone” dice il padre alzando il volume. Arrivati a casa vedono i giovani amici di Trè venire arrestati per taccheggio. Il ragazzo li osserva in silenzio, sta quasi per piangere e capisce per la prima volta la dura legge della strada e le difficoltà che dovrà incontrare per diventare uomo. È il centro emotivo del film e in pochi minuti si concentrano il calore musicale, il dolore della vita, il piacere del racconto per immagini e l’amore per i personaggi.

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Boyz ‘n the Hood è il Mean Streets dei neri americani. Quando uscì in America fu un vero shock. Il film piacque a tal punto che a soli 24 anni John Singleton bruciò due record in un colpo solo: divenne il più giovane regista a essere candidato all’Oscar e il primo afroamericano di sempre. La sua opera prima era la testimonianza di un momento storico delicatissimo per la comunità nera. Uscì a ridosso delle sommosse esplose a Los Angeles in seguito al pestaggio di Rodney King compiuto dalla polizia. Singleton raccontava la vita del ghetto mescolando ricordi personali a una padronanza tecnica inconsueta per la sua età. Il suo era un film vero, indipendente, politico e intimo allo stesso tempo. Intercettava la ansie generazionali della comunità e parlava di emarginazione, violenza, amicizia e del rapporto padre-figlio.

Per molti afroamericani Boyz ‘n the Hood è più importante di Fa’ la cosa giusta. Ha influenzato non soltanto la successiva generazione di giovani registi, ma l’intero panorama hip-hop americano. E non è un caso che Singleton, scomparso pochi giorni fa a soli 51 anni per un attacco di cuore, abbia in più occasioni girato video e fatto interpretare ruoli a star della musica: Michael Jackson, Tupac, Ice Cube, Janet Jackson. Sarebbe comunque ingeneroso ricordarlo solo per il suo film d’esordio. La sua è una parabola fondamentale per comprendere il processo di inserimento nel Sistema hollywoodiano compiuto in questi anni dalla comunità black. Regista e produttore molto attivo anche sul piccolo schermo – la recente Snowfall è stata da lui scritta e prodotta – dopo alcuni film tanto sfortunati quanto sottovalutati come Poetic Justice e L’università dell’odio si è specializzato in action movie apparentemente alimentari, ma in verità molto coerenti con un discorso preciso sul cinema di genere e sull’America.

Lo Shaft (2000) interpretato da Samuel L. Jackson è un ottimo remake, che aggiorna la blaxploitation ridefinendone superfici e immaginario all’alba dell’11 settembre. Fondamentale il suo apporto al progetto Fast & Furious (2002) con un secondo capitolo esplosivo che risintonizza la serie su dinamiche percettive e “politiche” – l’amicizia e la mescolanza etnica di un famiglia allargata di outsider – pienamente dentro al XXI secolo. Singleton ha sempre confezionato cinema di intrattenimento che piaceva ai giovani e che aveva i giovani per protagonisti. E così i suoi action movie finiscono spesso con l’essere racconti morali, diretti con un ritmo indiavolato. Come il bistrattato Abduction (2011) ad esempio, blockbuster giovanilistico che sotto la sua apparenza nasconde altre riflessioni sulla famiglia, sul rapporto paterno e sul tempo che non basta mai. E poi Four Brothers (2005), uno dei suoi titoli migliori e più interessanti. Noir di vendetta che vede quattro fratelli – due neri e due bianchi, perché Singleton crede nell’inclusione e nella mescolanza sociale e culturale – che vogliono scoprire chi ha ucciso la loro madre adottiva. Un film sul lutto, sull’America che deve fare i conti con i propri morti e con la crisi economica che sta per scoppiare, ambientato, non a caso, in una Detroit proletaria, ghiacciata, spettrale.

Le città sono sempre in primo piano e diventano le coprotagoniste delle storie. Los Angeles, Detroit, Miami, New York. Che grande cineasta metropolitano è stato John Singleton. Un cinema di strade, vicoli, sparatorie e automobili che sfrecciano e si scontrano come nelle opere di Walter Hill, probabilmente l’autore più vicino al suo cinema. Un umanista che inseguiva l’umiltà dello spettacolo e le immancabili ombre del contemporaneo.

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