Streetwise, di Na Jiazuo

Il debutto di Na Jiazuo, in Concorso al Laceno D’Oro, articola un racconto sincero, seppur imperfetto, sulla condizione degli individui abbandonati dall’inarrestabile processo di urbanizzazione

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Nei primi anni del Ventunesimo Secolo, il paese cinese è stato interessato da fenomeni di migrazione di massa che hanno spinto intere famiglie a riversarsi dalle campagne ai grandi centri urbani, con il conseguente svuotamento di piccole realtà locali, ridotte al mero stato di “città fantasma”. É in questo particolare contesto che Streetwise trova la propria dimensione significante, una lugubre cornice spaziale all’interno della quale i personaggi si muovono senza una direzione, in completa balia dello stato fatiscente in cui versa un ambiente cittadino destinato alla prematura dissoluzione. La città abbandonata di riferimento è Zhengwu, ubicata nella grande provincia dello Sichuan, dove il giovane protagonista Dong Zi (Li Jiuxiao), alle prese con un lacerante dissidio interiore, tenta in tutti i modi di assicurarsi (illecitamente) i soldi per le cure ospedaliere dell’abusivo e violento padre, al punto da diventare il tirapiedi di un controverso “esattore di debiti”. L’unica possibilità di salvezza, in un mare di desolazione, sembrerebbe essere rappresentata da Jiu’er (Huang Miyi), una tatuatrice amatoriale di cui il ragazzo si invaghisce, anch’ella mossa dalla volontà di evadere da un luogo relegato ai margini delle politiche di industrializzazione, dove le speranze future, per coloro che restano indietro, sono prossime allo zero.

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Da questa prospettiva, Na Jiazuo, al suo debutto, è molto abile nel collocare al centro della narrazione lo spazio urbano nel quale è inserito il protagonista: lo vediamo costantemente agitarsi all’interno dello spazio cittadino, alla cui azione opprimente antepone improvvisi moti di rabbia e violenza, con il solo risultato di peggiorare la propria condizione e rimanere ancora più radicato alla terra patria (e alla figura del temibile padre) da cui vorrebbe, possibilmente, allontanarsi. Ogni azione che compie lo porta alla deriva, in una condizione esistenziale che ricorda quella dei personaggi di Boarding Gate, tutti mossi da una desolazione interiore a cui non può porre rimedio neanche l’incessante (e futile) perseguimento del denaro (l’unica differenza risiede nell’assenza della matrice transnazionalista).

Dove Streetwise sembra scricchiolare, di contro, è nei rapporti umani tessuti all’interno dello spazio urbano. Per quanto nella relazione (platonica) tra Dong Zi e Ju’er si assista ad un’interessante condivisione, da ambedue le parti, dei disagi personali, finalizzata al superamento reciproco degli ostacoli interiori (come avviene, relativamente all’elaborazione del lutto, in Drive My Car), nel corso della narrazione il rapporto umano tra i due non è mai oggetto di evoluzione, rimanendo, perciò, congelato in una dimensione di incessante stasi. Nel mettere in scena il mondo diegetico in cui sono immersi i protagonisti, Na Jiazuo colloca il film in una posizione a metà strada tra i vezzi estetici del cinema di Diao Yi’nan (strade e mura di pietra illuminate dalle luci al neon violacee, immagini patinate al limite del virtuosismo visuale, analogamente a Black Coal, Thin Ice, 2014, e ad Il lago delle oche selvatiche, 2018) e l’onirismo spaziale di Suzhou River di Lou Ye (di cui riprende anche l’aspetto iconografico, a partire dalla ricorrente presenza del fiume).

Streetwise, nonostante mostri gli evidenti limiti e difficoltà di un’opera prima, spicca, allo stesso tempo, per l’onestà con cui veicola le proprie argomentazioni, articolando un racconto sincero, e mai melenso, sulla condizione degli individui abbandonati dalle inarrestabili politiche di urbanizzazione.

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