Streghe Rosse, Furie Bianche: (anti)cronaca di una serata con enrico ghezzi al Detour

Solo uno stato “stregato" può spiegare in sala la confidenza, il senso di familiarità provato di fronte all’incontro diretto con la voce di ghezzi, non dissimile da quello che ci coglie quando ci troviamo a discorrere delle nostre esperienze più banali con certi scrittori del primo 900 come se fossero non solo vivi, ma i nostri più cari amici e complici

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Prima.

Dove si narra del cinema e della notte, che si narrano da sé.

 

“[…] Il cinema si dovrebbe fare per i ciechi, che lo capterebbero senza vederlo.”

“[…] Nel cinema c’è qualcosa che esiste indipendentemente dalla volontà del regista. E’un corpo trasparente che ha una vita propria.”

(Artour Aristakisian)

 

Oltre che pesce, il cinema è quindi anche cieco per ciechi, buio abisso per mammiferi, che vi si possano gettare senza la certezza di respirare, affamati e capricciosi esploratori di una sostanza tanto più densa e concreta e lontana dall’evasione quanto più è liquida. Così ci siamo immersi, privi di difese e improvvisamente anfibi, nella antica fantascienza da sottomondo western (più oceano, che acquario) dei due film presentati da Enrico Ghezzi (il 18/1/2007, al Detour), mentre al suo ingresso giocavano e rimbalzavano nostro malgrado nella sala tutte le sfumature dell’evento: le nostre prevedibili reazioni di fronte alla circostanza – l’aspettativa di fronte a una conversazione, l’icona ghezzi, lo spettinato, l’ironico – ma anche la domanda, la necessità della critica messa in dubbio, e soprattutto una buffa e vaga gratitudine per il dono di certe pellicole introvabili (scoperte, forzieri, oggetti magici che sollevano sabbia dai fondali) lanciate silenziosamente dalla base fuori orario come testate nucleari silenziose nelle nostre stanze. Se il circo televisivo tende piuttosto a invadere lo spazio dello spettatore – suddito necessario ma inascoltato – allungando le mani dallo schermo in un patetico tentativo di cattura, con la triste pretesa di non essere più che una mite compagnia o un isterico sottofondo, le immersioni e le esplosioni di fuori orario sono invece un vero e proprio “corpo” che respira da sé mentre parallelamente accadono le nostre vite individuali: un corpo notturno che funge da sciamano, che rifiuta di bacchettarci e istruirci come un tutore o di somministrarci la pacca sulla spalla della benevolenza, e si limita a lasciar pulsare le immagini: se anche nella nostra stanza scivola a notte fonda una bottiglia con un messaggio, talvolta ci sembra un’emergenza, così la raccogliamo subito, posseduti e beatamente irretiti, oppure restiamo ipnotizzati a considerarla nel dormiveglia, o magari la ignoriamo, proseguiamo una lite particolarmente riuscita, o una telefonata importuna, calmiamo insonnie altrui con bicchieri di latte, ninne nanne o armi bianche, sovrapponiamo carezze troppo urgenti ad immagini crudeli, insomma, tentiamo di esistere. Solo un simile stato stregato potrebbe spiegare in sala la confidenza, il senso di familiarità provato di fronte all’incontro diretto con la voce di ghezzi, non dissimile, credo, da quello che ci coglie quando ci troviamo a discorrere delle nostre esperienze più banali con certi scrittori del primo novecento, come se fossero non solo vivi, ma i nostri più cari amici e complici.

Durante.

Dove si narra delle presenze evocate da Colui.

 

Il pavimento a scacchi del Detour ricorda l’arredamento di doom generation. Il rosso dominante e lo spazio raccolto ci assicurano tutto il calore delle proiezioni intime che il nostro immaginario romanzesco, duramente provato dal gelo psicotico dei multisala arcobaleno, reclama con avidità; le nostre guide, selvagge quanto i sentieri che percorrono, non hanno indossato abiti accademici; un attimo prima dell’inizio dell’incontro con il Mago il mio vicino di poltrona, faceto, racconta l’aneddoto di Brahms, discepolo che si addormenta assistendo a una tanto attesa esecuzione di pianoforte del Maestro Franz Listz: un rischio scongiurato, poiché se mai ci sentissimo soli, ecco sfilare presto i famosi fantasmi del suddetto mago, una processione di figure deliziose e allarmanti che ci stringono da ogni lato..

In ordine casuale: la figura di un critico denudato ma sottilmente sedotto dal proprio martirio, un San Sebastiano che coltiva “il gusto delle freccette”, la natura del ricordo, che non gioca sull’introspezione, bensì sulla sorpresa inebetita e un po’ trionfante del dettaglio banale, quel felice ritardo mentale che affligge qualcuno di noi e che non ci consente di ricordare come operai che inscatolano conserve di frutta, ma ci spinge anche tutti al tentativo (patetico.) di ritrovare un istante, di attardarsi eternamente dislocati in un futuro conosciuto a memoria, flagrante e fantomatico che si annidano, da veri amanti, in un tempo e in uno spazio giocattolo, l’impossibilità per noi, rigidi, di essere lo spazio, capaci soltanto di tesserlo e di annodarlo, le termiti che irrompono nel regno umido e precario di Charlton Heston, il set come un luogo del delitto che non contiene in sé delitto alcuno, la tendenza strategica, geneticamente autodistruttiva dell’evento, la natura del montaggio che ci fa finalmente grazia della nostra goffa frenesia o lentezza, la sostanza del distacco, dolci occhi immensi di attrice sentimentale che si affondano negli occhi da insetto di John Wayne, coronato dalla tuta da immersione come un astronauta medievale, la dimensione folle del baraccone spettacolare che potrebbe dare ragione di sé solo nel corpo tutto compostezza e lamè di Nicole Kidmam, che improvvisamente esplodesse, gettando fiumi di acque bibliche sul red-sea carpet, inondando il popolo invasato dei cacciatori di celebrità, procurando loro terrore e beatitudine…

 

di Margherita Palazzo – allieva del corso di critica cinematografica 2006/2007

Film proiettati:

 

1. La strega rossa (Wake of the red witch) – Edward Ludwig – 1948 – USA – 106 min

2. Furia bianca (The Naked Jungle) – Byron Haskin – 1954 – USA – 91 min

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