"Sull'amore molesto".

Il morbo diffuso da Argento (e da molti altri prima di lui) ci ha infettato, perlomeno ora sappiamo che rappresenta la costanza per cui ci sforziamo di vivere il cinema ogni giorno come fosse l’ultimo, cercando la vita in ogni lembo della prospettiva, desiderando corpi da vivere, da assaggiare, da ricambiare negli spasmi di passione che ci regalano.

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Un lettore, indignato per il coro di consensi piovuti sul Il cartaio in occasione del sondaggio sul nostro sito, ci chiede se amiamo o odiamo il cinema, infuriandosi per il semplice fatto di averlo bollato come capolavoro (attenzione, non noi, ma gli stessi lettori).E tra "occhi che vedono" e "cervelli che sc(u)oreggiano" (sempre citando il nostro lettore) ci ritroviamo per le mani un oggetto che scotta, una patata bollente che credevamo di aver sviscerato in lungo e largo nel corso del gennaio scorso. Questo, come volevasi dimostrare, ci ri/spinge contro la parete per un tiro al bersaglio di fronte al quale non possiamo che restare immobili, cercando di rimettere a posto le idee (sebbene non quelle nostre, ma quelle di altri). Allora, a quanto pare l’ultimo Argento sembra nato per seminare l’impetuoso vento della discordia. Chi lo critica ferocemente, chi lo fa a brandelli soffermandosi sui particolari più ridicoli, chi lo elogia (parliamo specialmente di alcuni quotidianisti, avvezzi invece solitamente a massacrarlo). Bene, ne prendiamo atto, restando ancora per un momento al di fuori del terreno di caccia. Non abbastanza però forse per non constatare che Il cartaio fa paura. E’ forse l’opera più spaventosa di Argento, quella che non trasmetteranno mai in prima serata, quella che non si può tagliare, quella che manderebbe in crisi persino lo stomaco più avvezzo ad ogni tipo di visione. Questo, nonostante Argento rinunci quasi totalmente alla macelleria, ai fiotti di sangue, all’escursione virtuosa su brandelli altalenanti di carne al macero. Cosa c’è allora di così terribile e indigesto? Ma semplicemente che Argento si mette definitivamente tra parentesi, negandosi come autore, sfracellandosi come portatore sano di cinema. Il suo universo è definitivamente malato, incline a diffondere il morbo, restio nel tirarsi indietro. E’ l’ipostasi del perfetto untore che quando meno te lo aspetti attacca, con tanto di manzoniana lettiga al seguito. La sua è un’infezione virale, una endemica curvatura di morte che colpisce ai fianchi, mozzando il fiato e togliendo equilibrio. Parliamo dei momenti in cui si assiste al doppiaggio fuori sincrono, alla recitazione pedestre degli attori, ai dialoghi che superano subito ogni ridicolo, ai buchi di un testo che grida vendetta seminando sgomento. E allora, il morbo è questo e questa è la ragione per amare Argento? Entrambe le cose, ma non è tutto. Il Cartaio non è questo, o meglio, non è solamente questo. Diciamo che non ci vogliono delle cime per leggere un labiale e capire che va per conto suo rispetto al sonoro, così come non urgono raffinati esegeti letterari per capire che il testo di Ferrini è forse ancora più delirante del solito e che con certe lacune in fase di sceneggiatura si potrebbe girare addirittura forse un altro film. Ebbene? Qual è il punto? Difficile da dire. Non possiamo negare che quest’opera sfalsata e paradossale ci continui a lavorare dentro per un qualcosa che forse alla prima visione sfugge irrimediabilmente. Se in Profondo rosso l’indizio si trovava in una delle prime sequenze (la Calamai allo specchio), qui si va oltre, in uno strato più profondo della materia, laddove non può assisterci l’evidenza armonica della visione. Il cartaio fa paura, è vero, ma più di ogni altra cosa commuove. Compatior appunto, muovere al pianto, scuotere, lasciar dimenare (aggiungiamo noi) in preda a convulsioni e fremiti. Dalla macchina a mano della prima sequenza, Argento prende il mano il povero spettatore e lo trascina in una selva oscura dominata da occhi che non vedono, microstorie che si accavallano senza essere sfruttate da nessuna macchina da presa, luci che sbagliano spesso e volentieri filtro e angolazione. Eppure, osservando increduli questo bailamme di occasioni sprecate, ci sentiamo come a casa nostra, in un set libero da ogni pastoia, da ogni obbligo, da ogni funzionalità. Il cinema più apertamente gratuito visto allora da qualche tempo in qua, per tutti e per nessuno, proprio nella misura in cui insegue traiettorie eterne di infinito e perduto amore provato per qualcosa (il personaggio della Rocca forse, forse il gioco delle carte, oppure per le vite scombussolate e distrutte come quella di Cunningham), tracciati di luce tremolanti e insicuri che divergono per riallacciarsi quando meno te lo aspetti. In tutti quei buchi che affastellano il racconto abbiamo goduto nel precipitare in qualcosa lontano mille miglia da ogni perfezione, da ogni tipo di tentazione di chiusura, da tutte le smancerie che imbalsamano lo sguardo, vivisezionandolo e decapitandolo. E’ stato un bagno rivivificante in quelle imperfezioni che ci dicono tutto sulla vita, sulla morte, sui conti che non tornano mai, sugli incontri sbagliati, sulle cose che credi tue e che puoi perdere invece in ogni momento, sulle persone che ami e sulla loro presenza pregna d’amore e di incostanza. E’ uno scivolamento bagnato di perle su una santa e ingiustificata coerenza, su fibrillazioni macerate, su amori non necessariamente ricambiati. Ma è anche il girotondo ameno e inebriante di tutti i corpi che ci stanno di più a cuore, di tutti quei registi che nuotano accanto ad Argento nel dopocinema regalandoci ancora l’illusione che qualcosa da raccontare vi sia e che continui ad aspettare proprio noi. Il morbo diffuso da Argento (e da molti altri prima di lui) ci ha infettato, perlomeno ora sappiamo che rappresenta la costanza per cui ci sforziamo di vivere il cinema ogni giorno come fosse l’ultimo, cercando la vita in ogni lembo della prospettiva, desiderando corpi da vivere, da assaggiare, da ricambiare negli spasmi di passione che ci regalano. Oggi sentiamo il cinema come un fatto di schieramento, di posizioni, di barricate, forse. Siamo allora tra gli sguardi impossibili tra Murray e la Johnson di Lost in Translation, nelle fessure infuocate della Campion, nel desiderio lacerato dello sguardo che Penn lancia in Mystic river alla figlia che esce per non tornare più, nelle ansie post/pre nouvelle vague di Demme, accano ad Aldo Moro e marco Bellocchio che riescono in strada in un alba che non avrà mai fine, davanti a Kitano per ballare, ballare, anche se gli spettri sono vicini e forse già ne siamo parte… Il cartaio non è un capolavoro, non è un film orribile, non è una visione stupefacente, né un film sbagliato. E’ la mano di un compagno di strada più grande che ci sussurra dolcemente che abbiamo imboccato una strada difficile, piena di ostacoli e incomprensioni, di conferme e di ripensamenti. Quella dell’esistenza, sempre e comunque.

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Non si ama, non si odia.

Si vive.

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