Suzume, di Makoto Shinkai
Makoto Shinkai sembra andare in direzione della pura fantasia. Ma ribadisce, comunque, l’esigenza di tornare sulla terraferma, al dato naturalistico e quotidiano. In concorso #Berlinale73
“Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti… Quando i veneziani (qualche volta anche i maltesi…) sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e altre storie”. Si chiudeva così Favola di Venezia di Hugo Pratt, con un ritorno di Corto Maltese ai passaggi segreti di una Corte Sconta detta Arcana. E rimane una delle più fantastiche definizioni del potere delle porte magiche, quelle che segnano i continui passaggi tra i vari livelli della realtà. Tra il concreto e l’immaginato, tra la Terra e i mondi ulteriori, tra lo spazio dei vivi e quello dei morti, tra le centinaia di migliaia di anni passati e i tanti futuri possibili.
Ogni storia ha inizio da una porta e da un attraversamento. Ed è proprio così che prende il via l’incredibile avventura di Suzume, una ragazza di 17 anni che vive in una cittadina della prefettura di Miyazaki, sull’Isola di Kyushu. Dopo l’incipit di un sogno che assomiglia a un incubo e che ci trasporta subito nei suoi spazi interiori, in una dimensione dai contorni indefiniti: una bambina che cerca disperatamente la madre in un cupo scenario di devastazione. Sulle tracce di un misterioso, bel ragazzo, che le ha chiesto della presenza di rovine, Suzume si precipita nelle terme abbandonate sulle colline sopra la città. Lì scopre una porta praticamente sospesa nel nulla. La apre e si affaccia su un altro mondo, spalancando le energie più devastanti e terribili, quelle che producono i terremoti e gli tsunami.
Makoto Shinkai sembra abbandonare ogni remora, per andare in direzione della pura fantasia. Ma come libera interpretazione di una visione animista (anim-ista), dove ogni angolo è abitato da presenze divine, dove ogni elemento naturale, qualsiasi fenomeno è il prodotto di spiriti e forze arcane. Ed è, semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, l’ulteriore conferma di come l’animazione sia probabilmente la più consequenziale espressione della tradizione shintoista. Eppure l’esigenza di Shinkai è sempre quella di tornare sulla terraferma, al dato naturalistico e quotidiano, al senso dello stare al mondo. Secondo la lezione di Miyazaki, chiaramente omaggiato dal richiamo geografico di partenza (con in più l’ammissione esplicita dell’ispirazione di Kiki – Consegne a domicilio). In questa direzione, il suo stile e il livello tecnico dell’animazione dello studio Comix sembrano essere arrivati a un punto di raffinatezza e di equilibrio estremi. Tra il realismo dei dettagli e la sensibilità pittorica ed evocativa dei piani d’insieme, con quella straordinaria capacità di generare luce con il colore. Fino alla fluidità di un movimento continuo, senza sosta, in cui anche i momenti di approfondimento emotivo sono perfettamente legati alle dinamiche dell’azione.
È chiaro che il punto della questione, per Suzume, è nell’elaborazione del lutto, nel percorso che deve portarla a ricucire le ferite e riempire i buchi neri della memoria. Per coprire finalmente tutta la distanza dalla bambina che era. Ma le vicende della protagonista sono il caso esemplare di una condizione più generale. Perché il film di Shinkai è anche un viaggio lungo il Giappone, dall’isola di Kyushu a Ehime sull’isola di Shikoku, fino a Kobe e Tokyo, sull’isola maggiore di Honshu. Lungo, dunque, le ferite e la bellezza di un paese da sempre costretto a combattere con la furia degli elementi. Tutto diventa così specchio della precarietà e della fragilità dell’uomo, nonostante l’evoluzione, la tecnica, le strategie dell’ingegno. Nonostante anche la preghiera, forse l’unica arma che rimane, quando tutto sembra invano. Ma una fede resta incrollabile. Che la vita continua a germogliare anche tra le macerie, tra le crepe della terra spezzata.