Takashi Miike: il coraggio delle idee

Maestro del cinema low-budget, regista di culto sempre più conosciuto anche in Europa, geniale esploratore del corpo umano e del malessere che ricopre la civiltà contemporanea, instancabile girovago pronto a virare ad ogni pellicola da un genere all'altro: Takashi Miike, portabandiera del rinnovamento della cinematografia giapponese.

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Takashi Miike nasce ad Osaka il 24 agosto del 1960, e lì trascorre gran parte della sua infanzia sebbene la famiglia, durante la seconda guerra mondiale, si fosse più volte spostata tra Giappone e Corea. Da giovane Takashi sogna di diventare un motociclista, ma le difficoltà di acquisire una licenza professionale lo spingono ad abbandonare il progetto. Quasi per caso si iscrive alla Yokohama Broadcasting and Film Academy dove, studente svogliato e indisciplinato, riesce comunque a laurearsi, e inizia la sua carriera come aiuto regista per autori come Shoei Imamura (fondatore della scuola stessa) e Kazuo Kuroki. Parallelamente sviluppa la propria idea di cinema, che si indirizza verso la rottura dei tradizionali equilibri per evolvere verso una costante riscrittura delle regole.

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L'ingresso ufficiale di Miike nel mondo del cinema avviene attraverso un lungo apprendistato svolto nell'ambito degli Original Video (pellicole indirizzate unicamente al mercato home video giapponese), per poi debuttare nel lungometraggio, nel 1995, con Shinjuku Kuroshakai (China Mafia Senso). L'anno dopo Miike realizza il suo primo film di successo, che lo lancia prepotentemente nel sempre florido circuito dei festival: è Fudoh – The New Generation, bellissimo yazuka movie intriso di profonde significazioni psicologiche, che analizza rapporti familiari contrastati e vendette trasversali che danno origine a tragedie inaspettate. Il film, tratto da un manga di Tanimura Hiroshi, impone il regista all'attenzione di un pubblico attento a scoprire i punti cardine della sua ideologia: esplorazione sistematica di tutti i generi cinematografici, adattati di volta in volta alla rappresentazione di storie taglienti e sconvolgenti, quasi sempre tratte da racconti o da sceneggiature già esistenti, in cui Miike distende la materia già scritta per mallearla e riempirla secondo la voglia di porre in essere un'analisi, sempre lucida e spesso spietata, del malessere esistenziale che circonda la società contemporanea, giapponese e non solo, attraverso una sistematica disgregazione sintattica della struttura filmica.


Storie disperate e lancinanti, in cui il corpo umano viene ginecologicamente smembrato e con esso l'anima, a scoprire le carte nascoste di una civiltà ricoperta dal manto protettivo di un apparente perbenismo entro al quale hanno luogo crimini ignominiosi e misteri inquietanti. Il tutto limato da una sorta di lirico ottimismo, entro il quale Miike traspone il suo romantico desiderio di immaginare un mondo migliore, un mondo possibile, un mondo però lontano dall'inesorabile realtà dei fatti.


Il regista di Osaka sfrutta alla perfezione il concetto di cinema low-budget, girando anche 6-7 pellicole all'anno, velocemente e con costi risibili, in perenne contrapposizione al continuo sperpero economico dei produttori, e non si vergogna ad ammettere che alcuni dei suoi lavori hanno uno scopo pedissequamente alimentare, essendo destinati unicamente a ricavare i soldi necessari per girare opere più importanti dal punto di vista artistico. Una sfrontatezza percepibile anche nella visione dei suoi film, nei quali spesso e volentieri l'estremo viene toccato e mostrato senza paura, disgustando l'occhio dello spettatore mai però gratuitamente: ogni fotogramma di violenza e sangue nel cinema di Miike assume un significato quasi epifanico nell'esaltazione dell'arte come strumento in grado di volare oltre i confini del lecito per dare vita al non-mostrabile come indispensabile accessorio della vivisezione compiuta ai danni del misfatto umano. Paladino dell'estremo, della perversione come modello di presa di coscienza riguardo all'inesorabile stagnazione (e limitazione) della razza umana, e altresì del surreale, che diviene esplicita sfida ai soffocanti canoni filmici decostruiti nel nome dell'imprevedibilità, sognatore di un (im)possibile mondo perfetto, spietato accusatore del degrado della società giapponese, Miike è anche, come detto, un cantore della dismissione del concetto di genere, da cui prende di volta in volta le distanze per offrire ad ogni pellicola una visione nuova e genuina della propria ideologia.


Tra gli oltre 60 film girati in dieci anni, contando anche gli Original Video e alcuni episodi di film per la Tv, ci limitiamo per motivi di spazio a citarne alcuni, a nostro giudizio tra i più efficaci e riusciti: Dead or Alive (primo capitolo di una trilogia), ottimo yakuza movie in cui la violenza fa da contrappunto ad una malinconia insistente; Audition, vero e proprio capolavoro che inizia come una commedia romantica caratterizzata da sequenze di non comune dolcezza per poi affondare passo passo in una voragine di orrore scioccante, che trova la propria sublimazione nella tortura fisica e psicologica; Ichi the Killer, forse il suo film più amato, esempio di estremismo filmico di rara crudeltà e di difficile sopportazione lanciato alla velocità di un videoclip impazzito in cui i liquidi organici si ergono a soggetti pregnanti nel dipingere il disfacimento del corpo umano; Full Metal Yakuza, parodia del genere cyber-robot; Bird People of China, esistenzialista, introspettivo e nostalgico; Agitator, ritorno allo yakuza-movie feroce e malvagio; Visitor Q, magistrale e coraggiosa (e quasi pasoliniana) analisi delle nefandezze che si nascondono dietro alla facciata sorridente delle famiglie borghesi; e infine i recenti Gozu, yakuza-horror guidato da due fratelli inseparabili, e Izo, metafora apocalittica della disfunzione dell'universo in cui il demonio assume forme terrene e contamina con il male eterno un mondo destinato a ruotare all'infinito nell'eterna corruzione. Tra i film più commerciali possiamo invece evidenziare il magnifico Happiness of the Katakuris, irrefrenabile e spassosissimo musical semi-demenziale in cui buoni sentimenti e orrori convergono felicemente intervallati da sequenze di cinema d'animazione, e The Call, che pur vantando un valore critico certamente di basso livello e una totale estraneità ai punti di forza dell'ideologia di Miike, è stato il primo film del regista nipponico ad essere a tutti gli effetti distribuito nelle sale italiane.


Le proiezioni all'ultimo festival di Venezia di Izo e di Three…Extremes (film a episodi diretto insieme a Park Chan-wook e Fruit Chan), non dimenticando gli omaggi a lui attribuiti negli scorsi anni a Torino (Ichi The Killer proiettato al Torino Film Festival) e Roma (la retrospettiva curata lo scorso autunno dal Detour), dimostrano, oltre ad un culto ormai assodato, anche la netta crescita di popolarità a livello di grande pubblico di un autore fondamentale, geniale, che ha saputo negli anni ergersi a capostipite di una cinematografia in splendente stato di forma, grazie a due doti rare nel cinema contemporaneo e fondamentali nella loro pur apparente semplicità: il coraggio delle idee e la forza creativa della messinscena. Senza compromessi.

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