Takeshi’s Castle. Il (grande) ritorno di un programma folle

L’iconico programma ideato da Kitano ritorna dopo 34 anni con una nuova stagione. Manca l’ironia della Gialappa’s, eppure non perde nulla di ciò che lo rende così orgogliosamente ridicolo. Prime Video

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Il momento che molti di noi stavano con trepidazione aspettando è arrivato: dopo 34 anni di assenza dagli schermi internazionali, Takeshi’s Castle è finalmente tornato con un nuovo ciclo di episodi. Eppure, trovandoci in Italia, potremmo dire che Takeshi’s Castle non è semplicemente tornato: ma che in realtà, nel nostro paese, ci è arrivato per la prima volta! Si, perché noi italiani non abbiamo mai realmente visto il programma giapponese di giochi senza frontiere ideato da “Beat” Takeshi, l’alter ego comico di Kitano. Almeno non nella sua versione originale e “canonica”. Quel prodotto che nel 1989 aveva tenuto incollati allo schermo milioni di telespettatori era di fatto il frutto di un’operazione ibrida, in cui l’opera di partenza veniva costantemente rimediata e filtrata attraverso una comicità di stampo locale, più appetibile – e quindi, comprensibile – per il pubblico nazionale. Ecco allora che il programma di origine nipponica si italianizza, cambia nome e identità, e da Takeshi’s Castle diventa Mai dire Banzai: ovvero un contenitore satirico in cui i tre (al tempo giovanissimi) “gialappi” Marco Santin, Giorgio Gherarducci e Carlo Taranto commentavano umoristicamente le azioni folli e sgangherate dei concorrenti giapponesi. Dissacrandone l’evidente spirito suicida, attraverso invettive caustiche e sarcasmi dalla natura profondamente italica.

Guardare allora la nuova stagione di Takeshi’s Castle senza il commento satirico della Gialappa’s Band, equivale per lo spettatore italiano a vivere un’esperienza di visione singolare. Davanti a gesta e ambientazioni note e immediatamente riconoscibili, è facile percepire un leggero senso di mancanza. L’assenza cioè di un qualsiasi richiamo alla nostalgia, proprio perché il prodotto manca di quell’aggancio emotivo che solo le voci dei tre gialappi potevano risvegliare. Eppure, nonostante questo, il programma non smette di essere familiare. Tutto al suo interno, dalle spettacolari scenografie in esterni alle sedi del castello di Takeshi fino ai luoghi delle prove, sembra richiamare a sé lo spettatore, per ospitarlo in un nido protetto, in cui le logiche consuete del programma, unite all’alto tasso di follia nipponica, costituiscono ancora una indiscutibile garanzia di divertimento – e di autenticità.

La storia del programma, anche a distanza di 34 anni, è sempre la stessa: 300 persone, tra cittadini comuni, atleti professionisti e superstar dello spettacolo, si riuniscono per assaltare il Castello di Takeshi, e conquistare così gli onori di battaglia – oltre ad un bottino di un milione di yen. Per poter arrivare all’obiettivo finale bisogna però superare una serie di giochi e prove fisiche, che tra attrazioni acquatiche e inseguimenti nel fango, porteranno i partecipanti ad esibirsi in fallimenti altamente spettacolari, quando non addirittura imbarazzanti. Ed è proprio a partire da questo suo (grande) punto di forza, cioè dalla rappresentazione di personaggi così meravigliosamente eccentrici e ridicoli, che la nuova stagione di Takeshi’s Castle trasforma le sue assurdità in puro piacere visivo. E lo fa senza mai tradire il passato. Anzi, lo rispetta fino all’ultimo, riuscendo a muoversi con grande destrezza tra familiarità e rinnovamento, tra la necessità di capitalizzare le formule passate e la volontà di adeguarle alle esigenze del nuovo pubblico attraverso un’ulteriore diversificazione delle attrazioni/competizioni.

I soliti volti perciò risultano sempre gli stessi, anche se invecchiati e de-italianizzati. Naturalmente il pubblico abituato alle logiche di Mai dire Banzai, non può più riconoscere i personaggi-icone di Takeshi’s Castle attraverso i dissacranti appellativi che la Gialappa’s aveva loro affibbiato: non avremo perciò i presentatori Lippo Lippi e Cippa Lippa, il campione ridenominato il “Jovanotti giapponese” o l’iconico inviato Pokoto Pokoto; il Conte Takeshi non lo associamo al nome di Guido Pancaldi, mentre il Generale Putzerstofen lascia definitivamente il posto al più canonico Generale Tani (che qui divide il compito di guidare le truppe d’assalto con il corpulento Subaru Kimura). Quel che riporta alla mente le emozioni del passato sono proprio le attrazioni, molte delle quali sono state addirittura implementate per la gioia degli appassionati: in tal senso, ogni qualvolta i partecipanti cercano di oltrepassare (invano) lo Stagno del Dio Drago o si schiantano sotto i colpi di Star Bowling, si rimane sorpresi per come queste situazioni così formulari non abbiano perso nulla della loro ilarità, anche a distanza di tanti anni e della loro indubbia ripetitività.

Poi certo, a guardare la nuova edizione di Takeshi’s Castle non si nota nulla di particolarmente originale né di meramente revisionista. Ma il programma, per la semplicità con cui da sempre fa funzionare i suoi meccanismi, non ha alcun bisogno di essere rivoluzionato dalle fondamenta. Per ottenere il successo gli basta la mitopoiesi, creare cioè dei personaggi dalle persone, in modo che il pubblico si “disperi” quando i concorrenti falliscono una prova, gioisca nel momento in cui la superano oppure esulti quando un soggetto goffo (come Mr. Sasuke) si rende ancora più ridicolo dopo l’ennesima, pronosticabile figuraccia. Ecco, se solo la presenza di Kitano non fosse stata così centellinata e poco appariscente, sia per motivi di salute che di impegni lavorativi, forse questa nuova stagione di Takeshi’s Castle avrebbe avuto l’allure del trionfale ritorno. Ma i fan storici, come i neofiti, difficilmente se ne potranno lamentare. Dopo tutto, ce ne fossero di programmi così orgogliosamente sgangherati come quello creato dal geniale autore giapponese. Capace com’è di ironizzare sulla sua stessa longevità. E sulle formule eccentriche che ne hanno decretato, nel tempo, l’immortalità televisiva.


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