TALLINN 12 – Il cinema di confine di Laila Pakalnina

Par dzimtenitiContinua a raccontare una terra ai margini, una no men’s land, un luogo di confine, Laila Pakalnina. Senza bisogno di troppe parole, anzi quasi come una composizione muta (perché le uniche parole sono squarci delle conversazioni, o meglio dei pensieri ad alta voce, dei pescatori protagonisti), Pakalnina osserva la vita quotidiana: cambia il set, ma permane la stessa attenzione nel cogliere istanti di vite anonime che si compongono sullo schermo.

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laila pakalninaContinua a raccontare una terra ai margini, una no men’s land, un luogo di confine, Laila Pakalnina. (Three men and a fish pond), diretto insieme a Maris Maskalans (al suo esordio), è in perfetta sovrimpressione con gli altri lavori della regista lettone (molti dei quali abbiamo scoperto recentemente al Festival dei Popoli di Firenze nella retrospettiva sul cinema documentario dei paesi baltici curate da Grazia Paganelli).

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Senza bisogno di troppe parole, anzi quasi come una composizione muta (perché le uniche parole sono squarci delle conversazioni, o meglio dei pensieri ad alta voce, dei pescatori protagonisti), Pakalnina osserva la vita quotidiana di un luogo e dei suoi abitanti, la zona lungo un fiume dove (non) si intrecciano i percorsi delle due comunità che la abitano, gli uomini (nel senso di maschi, le donne sono presenze-assenze, che appaiono nei lampi di una processione religiosa o di una festa improvvisata in quelle povere abitazioni) e gli animali, uccelli e pesci (e un gatto magnifico che si aggira dentro e fuori casa, e miagola alla videocamera prima di uscire di campo in un’inquadratura). Tutti a combattere una quotidiana lotta per la sopravvivenza, ignorandosi anche quando il contatto è inevitabile in quelle attività essenziali e rudimentali. Par dzimteniti è una sorta di seconda parte di Dreamland, il documentario che Pakalnina ha girato in una immensa discarica di rifiuti. Cambia il set, ma permane la stessa attenzione nel cogliere istanti di vite anonime che si compongono sullo schermo, con un gran lavoro di montaggio e di tensione sonora (qui nel riprendere le voci degli uccelli, vera e propria colonna sonora da brivido, e gli spari che scuotono ripetutamente i corpi e le immagini, presenza fisica invisibile e devastante). Filmando, qui, la Lettonia più profonda, lontano dalla capitale. Con l’umorismo che contraddistingue il cinema della regista, e degli accostamenti certo schematici, ma sempre funzionali nella loro semplicità di narrazione per rendere immediatamente visibile la materia descritta.

Par dzimteniti è stato presentato alla dodicesima edizione del PÖFF (il Black Nights Film Festival di Tallinn, nella capitale estone fino a sabato 6), e concorre per il premio della sezione Tridens, riservata ai nuovi film baltici. Tra i film della competizione principale, per lungometraggi di Europa e Asia, c’è anche l’opera prima, profondamente ambiziosa e sbagliata, del giapponese Masaki Iwana Shureitachi (VePar dzimtenitirmilion souls), uno dei più acclamati performer di danza Butoh e uno dei rari danzatori di questa disciplina che custodisce il suo spirito originale. Da tempo aveva il sogno, Masaki Iwana, di realizzare un film e il suo desiderio si è compiuto con questo lavoro che porta nelle immagini i gesti e l’anima del Butoh. Purtroppo in un film, digitale e in bianconero, ambientato nel Giappone del 1952 ma girato nel Sud della Normandia dove da anni vive il regista, che non sfugge a nessuno dei luoghi comuni del cinema più indipendente (nella costruzione delle inquadrature come dell’uso della musica e delle simbologie). Tutto sempre troppo sottolineato, fino a un paio di scene hard esplicite e d’arte e a un finale di meta-cinema altrettanto banale. Interessante era il pre-testo: un gruppo di personaggi, da alcuni con malformazioni fisiche a una prostituta, tutti reietti dalla società (e la causa di tutto è la guerra) e rifugiati in un castello controllato dal governo, in attesa della morte che il governo darà loro con un gas…

 

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