Taormina 53 – Tra desiderio di espansione e piccoli pantani organizzativi

La nostra episodica partecipazione non consente un resoconto puntuale, ma al di là delle pecche organizzative (tutte verificate), si sente il desiderio di crescita del Festival di Taormina, ne siano testimoni i tanti ospiti e per quanto ne possiamo dire, anche la qualità dei film.

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L’episodica partecipazione alla manifestazione di Taormina (53a edizione) non consente di giudicare a pieno la riuscita della forma organizzativa proposta dal nuovo direttore artistico Debora Young, critico di Variety. Di certo, per quel che ci consta, il festival soffre di una endemica disorganizzazione che si manifesta nel mancato rispetto degli orari (capita che il film cominci con quasi un’ora di anticipo sul programma modificato e un’ora e mezzo su quello diffuso e ciò capita nell’ultimo giorno di programmazione!), che le proiezioni avvengano con imperdonabile approssimazione (l’elenco possibile degli errori di un ipotetico manuale dell’(im)perfetto protezionista sono tutti emersi nella tragica proiezione di Good time Max di J. Franco). Ciò detto il Festival ha mostrato di volere crescere proponendo alcune interessanti escursioni in cinematografie trascurate o valorizzando il lavoro di giovani cineasti alla loro prima opera e di questo desiderio ne dà testimonianza la copiosa partecipazione di ospiti che di sicuro ha arricchito il programma.

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Terence Davies  Omaggio a Terence Davies  

The House of mirth è un film di Terence Davies del 2000 che opportunamente il festival ha recuperato per l’intenso incontro con lo stesso autore di cui si dirà su queste stesse pagine.

Film di energica drammaticità che implode nella mirabile interpretazione della Gilllian Anderson di X Files. Sul suo volto la lenta discesa nel turbine inquieto della sconfitta che l’accoglierà nel finale, nell’ultimativo accidentale suicidio comunque annunciato. Davies gira con la sua solita aria compassata, ma decisa, con la sicurezza di chi non vuole affrescare un muro (alla Ivory per intenderci), ma con la consapevolezza di raccontare un personaggio di complessa configurazione. Un personaggio che fa da trait d’union tra il vecchio che sparisce e il nuovo che viene avanti. Si sente l’afflato delle classi sociali che si avvicinano e il ripiegarsi della figura della Anderson racconta, da vittima, il lento tramonto di un mondo e il prepotente rifiuto della società di capire la novità del nuovo secolo.

 

Per un cinema del Mediterraneo…

Il film della marocchina Farida Bourquia Two women on the road è un’opera decisamente incompiuta che se da una parte insiste sulla costruzione di un rapporto tra queste due fuggitive, un per caso un po’ per necessità, appartenenti a due differenti condizioni sociali, dall’altra le lungaggini narrative, francamente inefficaci per lo sviluppo della trama, allentano il mordente e anche l’istintiva simpatia delle due donne si confonde nel flusso di una narrazione in cui le inutili superfetazioni hanno la meglio sul nucleo narrativo più interessante.

23 anni, un coraggio produttivo da vendere, aggressivo al punto giusto, determinato, cinefilo accanito, sagace e consapevole delle sue possibilità, è questo il ritratto del giovane regista francese Barthelemy Grossman autore, scrittore e attore, insieme ad un drappello di fidati e capaci amici, di 13M2 una storia impetuosa di malavitosi e dei difficili rapporti che si innescano tra di loro se si è costretti in uno spazio angusto per depistare le indagini dopo una rapina finita nel sangue. Realizzato con i soldi raccolti qua e là, solo dopo la visione privata 13M2 è stato finanziato da Canal+ e il giovane Grossman, che ha il piglio del regista consumato tanto che pare avere le idee chiare per il futuro, ha potuto saldare i propri debiti. Per adesso ci ha consegnato quest’opera che se non brilla per originalità, dice la sua sul tema vero del film che è quello della responsabilità e della ricerca della felicità, per comprendere come l’ottenimento di un risultato fa perdere il diritto a godere di altre piccole e quotidiane soddisfazioni.

Questa edizione del Festival è stata dedicata al cinema egiziano di questi anni e pur non avendo avuto modo di seguire la retrospettiva è stato sufficiente vedere The Yacoubian building di Marwan Hamed, autore di quest’opera prima tratta dall’omonimo libro, famoso in Egitto, e già edito in Italia da Feltrinelli. Anche qui il vecchio e il nuovo Egitto, ma piuttosto il vecchio e il nuovo di dovunque, per un film che attraverso le storie parallele di vari personaggi compone, con forza incalzante, un mosaico, null’affatto scontato, di un Paese sull’orlo di un mutamento che nasce non sul passato, ma piuttosto sul suo annientamento, sulle ceneri di una società dimenticata in cui i concetti di onorabilità e dignità hanno lasciato, pericolosamente, il posto al compromesso quotidiano, alla corruzione, al delirio terroristico e a qualsiasi ipocrita forma di rispetto umano.

Della stessa area geografica, seppure separati dalle divisioni che conosciamo, è il film dell’israeliano David Volach, My Father, My Lord. Di famiglia ortodossa il regista, non condividendo l’impostazione religiosa familiare, sceglie un’altra strada per una volontà di secolarizzazione. Proprio per questo, forse, riversa in questo suo primo film, di rara intensità drammatica, il dolore del distacco, ma anche i temi di una religione che non può diventare oppressiva e pervasiva. La storia dei due coniugi in età che perdono il loro bambino per un eccesso di bigottismo del padre, dedito alle preghiere piuttosto che al controllo del figlio, ricorda, a parti invertite, il primo episodio del Decalogo di Kieslowkij. Vincitore, come migliore film del Tribeca Festival si avvale di una fotografia cupa risolta in un viraggio livido e di una camera sempre stretta su insistenti primi piani che mostrano la fatica quotidiana, ma in cui trasmigra anche l’oppressione continua della religione che non diventa liberazione, ma gabbia quotidiana. Tutto ciò fa di My Father, My Lord un film nitidamente determinato a dimostrare che se la fede può salvare l’anima, talvolta non salva il corpo e sarebbe interessante accostare questi esiti all’olmiano Centochiodi, che da altra prospettiva ha affrontato questi stessi temi.

 

… ma anche l’Europa dell’est sorprende

Di vera sorpresa bisogna parlare prima di soffermarsi sull’opera di Ilian Simeonov, quarantaquattrenne autore bulgaro sufficientemente misconosciuto dalle nostre parti pur avendo realizzato fino ad ora quattro opere di cui questa, cronologicamente, è la terza. Nato nel 1963 segue gli studi di cinematografia in Bulgaria e nel 1994 viene premiato il suo primo film The border.

Warden of the dead è la storia, tra il grottesco e il surreale, con il solito tocco magico dell’oriente europeo più nomade ricco di quella cultura errante che è già in odore d’Asia, di un ragazzo 13enne che fa da guardiano al cimitero e che impara dai morti il senso della vita.  Il ragazzo fa partecipi della sua saggezza i suoi strampalati amici, un pittore che non trova fortuna, ma che troverà l’amore e un anziano che non riesce a trovare la morte, ma che troverà una figlia. Film di complessa struttura che scioglie nel brivido di una metafisica quotidiana le più ancestrali paure che giacciono dietro le lapidi che qui diventano libri aperti sui quali imparare.

Per restare ancora in questo sconfinato est europeo che si va vieppiù frantumando, non soltanto geograficamente, ma culturalmente e soprattutto socialmente, come fosse investito da un vento che porta alla follia e che neppure Ivens, forse, saprebbe descrivere, non possiamo mancare di incrociare le nitide traiettorie di Kremen sovrapposte alla confusa e disordinata visione di un mondo che Anton, il suo protagonista, non comprende. Dirige il russo Aleksei Mizgiryov filmmaker classe 1974 qui alla sua prima esperienza. Kremen significa sasso pietra focaia ed è con questo spirito e questa tempra che Anton giovane militare congedato, decide di affrontare la mitica Mosca città nella quale si troverà a dovere fronteggiare, seppure quale giovane allievo della polizia, inganni e corruzione, solitudine e incomprensioni. Le conseguenze di queste delusioni saranno drammatiche e in un prefinale di notevole intensità, dove, anche se si respira l’aria di Taxi driver, il drammatico gesto prefigurerà (forse) un bagliore di ottimismo. Kremen è un film che racconta lucidamente, pur se filtrato dal caotico paesaggio interiore del suo protagonista,  una città dilaniata da un male lucido e inesorabile, una città e forse un paese intero intaccato da una contaminazione che lì, peggio che altrove, ha preso le drammatiche forme di un male che pare inesorabile.

 

James (Spiderman) Franco

Per finire il film di James Franco Good time Max, proiettato come peggio non si potrebbe con una serie indicibile di errori, che ha lasciato, da ultimo, gli spettatori con gli occhi stanchi per l’evidente sfocatura con cui era proposto, nonostante le ripetute segnalazioni che, con ogni forma di urbana comunicazione, era possibile da parte degli spettatori.

Così pregiudicato il film ne ha sofferto. Franco, reduce dai successi di Spiderman si dedica alla regia strizzando l’occhio (cinematografico) agli anni ’70, raccontando una storia che potrebbe appartenere agli ’80 e mixando un po’ di cose già viste e qualche interessante novità.Ad esempio, il finale inaspettato, che per decenza non va raccontato, che sconvolge le coordinate del film e dei personaggi. Opera comunque piuttosto accattivante per le musiche e la capacità di scompaginare, di tanto in tanto, l’ordine precostituito ancorché all’interno di una storia disordinata.

Per il prossimo anno ci si attende la stessa qualità di contenuti e una più puntuale organizzazione nella consapevolezza che, in fondo il Festival vive sulle gambe dei suoi frequentatori. 

 

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